Welfare

Creare un common

di Flaviano Zandonai

Il tragitto Milano Centrale / Peschiera del Garda se percorso con il regionale di Trenord libera uno spazio temporale sufficiente per riflessioni ai limiti del consentito. Ad esempio per una discussione che approccia il tema dei beni comuni in chiave costruttivista e anti dogmatica. Si può costruire un common? E’ possibile accelerare il processo generativo? E ancora, ci sono categorie di beni che meglio si prestano a una gestione comune? Tutte domande azzardate nella misura in cui con il termine ci si riferisce a forme di gestione che sono reliquie di “civiltà sepolte” e a risorse che si vedono, in quanto tali, attribuire questa qualifica.

I commons si possono costruire, eccome. Per averne la prova l’edizione domenicale de Il Sole 24 Ore di qualche settimana fa segnalava un sito che già dall’url parla chiaro: globalinnovationcommons: un database che raccoglie risorse tecnologiche disponibili in una logica open source. Ed anche un interessante colloquio con l’attivista e saggista David Bollier soprattutto per l’intento di attualizzare e ri-contestualizzare i commons.

Detto questo come si fa? Destreggiandosi tra contributi e approcci diversi che rendono la materia piuttosto scivolosa si possono comunque individuare alcuni punti focali. 1) Riconoscere una risorsa come tale: sembra banale ma invece è un passaggio fondamentale e tutt’altro per scontato perché si tratta di un processo di tipo collettivo, legato a bisogni definiti e storicamente determinati. Che un prato di montagna serva per produrre foraggio o per farci lo snowboard nella stagione invernale cambia, e di un bel po’, la natura della risorsa disponibile. 2) Definire una modalità di utilizzo della risorsa che non generi (o almeno limiti) il suo decadimento, rendendola progressivamente indisponibile; altro passaggio cruciale perché richiede il possesso di conoscenze estremamente complesse e articolare sul ciclo di sfruttamento e di rigenerazione. Senza scomodare le pluricitate risorse naturali, basta ricordare che le norme di gestione di uno spazio pubblico urbano (una piazza) possono essere definite nella forma di bene comune guardando a chi e al modo in cui questo spazio viene vissuto e curato. 3) Costruire un sistema di governo capace di gestire le due fasi precedenti facendo riferimento anche agli interessi non ancora costituiti e strutturati, in primis quelli delle generazioni future. Uno stakeholder maltrattato come non pochi dal sistema politico istituzionale italiano che, da questo punto di vista, non fa un gran servizio a quel “bene comune” che ormai ci si è quasi stufato di sentire ripetere a vuoto nei dibattiti elettorali.

Dunque, a proposito di espressioni inflazionate, si può fare. E a ben vedere si tratta del lavoro ordinario di molte organizzazioni non profit e imprese sociali. D’altro canto l’armamentario giuridico organizzativo e gestionale oggi disponibile è ancora piuttosto farraginoso. Forse per questo una produzione di carattere manualistico – non me ne vogliano i puristi – sarebbe da auspicare dopo la sbornia di manifesti sui beni comuni dalla qualche ci si è risvegliati con un gran mal di testa e con realizzazioni sul campo piuttosto traballanti.

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