Immigrazione
Cpr italiani in Albania: atti di autolesionismo, proteste e difficoltà di comunicazione con l’esterno
«Già nelle prime 24 ore si sono verificati episodi tipici dei Cpr italiani», scrive Francesco Ferri, esperto di migrazione di ActionAid, organizzazione che aderisce al Tavolo Asilo e Immigrazione, che è appena rientrato da una missione di monitoraggio nel Paese. «I migranti sbarcati con le mani legate, evidenziando la natura punitiva e simbolica del provvedimento. Accettare che un governo possa eludere le garanzie fondamentali per ragioni strettamente politiche significa intaccare la tenuta democratica nella sua interezza»

Con il trasferimento coatto di 40 persone già trattenute in Italia, ha preso forma il nuovo “modello Albania”. La nave Libra, con a bordo i migranti, è giunta nel porto di Shengjin intorno alle 16.00 di venerdì 11 aprile, scortata da un rimorchiatore albanese. L’immagine che sintetizza questo nuovo assetto giuridico è inequivocabile: ogni persona è sbarcata con le mani legate da fascette in plastica e le braccia bloccate da agenti di polizia. Nessun elemento lasciava intendere la necessità di simili misure coercitive.
Questa scena non è solo violenta: è paradigmatica. Sancisce visivamente la natura afflittiva e simbolica dell’operazione, prima ancora che la sua funzione amministrativa. Il trasferimento, che secondo il governo italiano dovrebbe facilitare i rimpatri e alleggerire la pressione sui Cpr italiani, si rivela fin da subito un apparato punitivo, inefficiente e giuridicamente fragile.
Il Tavolo Asilo Immigrazione ha potuto monitorare le procedure denunciando gravi violazioni dei diritti. L’Italia ha realizzato in territorio albanese un punto di sbarco e identificazione presso il porto di Shengjin e un centro di trattenimento a Gjader. Finora, in questa seconda struttura era attiva solo l’area destinata ai richiedenti asilo provenienti da Paesi considerati “sicuri”. Oggi è operativa anche la zona Cpr, in cui sono attualmente trattenute 39 persone. Non si tratta di una struttura per il transito rapido, ma di uno spazio di detenzione prolungata, in un quadro normativo incerto e con accesso precluso a media e società civile. Già nelle prime 24 ore si sono verificati episodi tipici dei Cpr italiani: atti di autolesionismo, proteste, difficoltà di comunicazione con l’esterno. L’infrastruttura repressiva ha solo cambiato collocazione geografica, traslando al di fuori del territorio dell’Unione Europea.
Rispetto alle prime missioni di monitoraggio condotte nei mesi precedenti – prima del cambio di destinazione del centro – lo scenario attuale presenta elementi di novità. In precedenza, i trattenimenti non erano stati convalidati e le persone erano state trasferite in blocco in Italia. La magistratura aveva disposto la loro liberazione, anche per l’assenza di un chiaro inquadramento giuridico dell’operazione. Ora, le traiettorie si frammentano. Le persone trattenute non seguono più un destino collettivo, ma individuale, in un contesto di crescente opacità. Una persona risulta già rientrata in Italia, senza che siano noti i motivi e le modalità. Mancano informazioni trasparenti sui criteri di selezione, sull’accesso a una difesa legale effettiva, sull’eventuale avvio di procedure di rimpatrio.
Anche ammettendo – per ipotesi – la razionalità del discorso governativo orientato al controllo e al rimpatrio, l’operazione in Albania si dimostra incoerente. Le persone intercettate in mare devono comunque essere trasferite in Italia per l’esecuzione del rimpatrio, rendendo il passaggio intermedio in Albania una complicazione logistico-burocratica, non un’accelerazione. L’intera messa in scena produce più un effetto politico che una funzionalità reale.
In un contesto in cui l’effettività dei rimpatri resta estremamente bassa – circa il 10% delle persone destinatarie di provvedimenti viene effettivamente rimpatriato – il governo costruisce un dispositivo dimostrativo, volto a rafforzare la percezione pubblica della fermezza. Le immagini dell’arrivo in Albania rispondono a questa logica di potere performativo, non a esigenze operative.
Dal punto di vista giuridico e politico, il protocollo segna un precedente grave. Delocalizza fasi fondamentali della procedura al di fuori dello spazio giuridico europeo, pur continuando ad applicare formalmente la normativa italiana. Si definisce così una zona grigia in cui i diritti, pur garantiti sulla carta, rischiano di non essere esigibili.
Le organizzazioni del Tavolo Asilo e Immigrazione, presenti in Albania per attività di monitoraggio, rilevano con preoccupazione l’assenza di meccanismi di controllo indipendente, la compressione del diritto alla difesa, l’impossibilità per le persone trattenute di comprendere appieno il proprio status. Ciò che oggi è messo in scena in Albania potrebbe essere replicato altrove, dentro o fuori i confini dell’Ue. Accettare che un governo possa eludere le garanzie fondamentali per ragioni strettamente politiche significa intaccare la tenuta democratica nella sua interezza. In questo scenario, il monitoraggio ha una portata che eccede la semplice testimonianza. Significa affermare che ogni corpo trattenuto, ogni diritto negato, ogni prassi abusiva ci riguarda direttamente. L’Europa dei diritti non può gestire i propri confini con questa opacità e violenza.
AP Photo/Vlasov Sulaj/LaPresse
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