Cultura
Covid-19, Caos e Paranoia: il tempo delle governance imbarazzanti da Wuhan al nostro Paese
La salute pubblica è diventata un mantra: numeri, cifre, allarmi, dati. Ma dietro un discorso all'apparenza coerente si nasconde il caos burocratico. Un esempio? La partita Juventus-Napoli
Non verremo a capo del Coronavirus e dei suoi snodi più delicati, perennemente sospesi sul funambolismo di paranoia collettiva e caos gestionale, fin quando non capiremo che infezione, narrazioni mediatiche, discorsività politiche, specillazioni burocratiche e interessi corporativi formano ormai un circolo perverso e perfetto. Imperizie imposizioni e imposture – questa la trigonometria dei tempi bui che viviamo. Stordenti campi fonetico-visivi – per noi cittadini troppo spesso spettatori proni e impotenti – che tessono le loro ragnatele sui milioni di megabyte di dati condivisi fra web e media integrati, tutti permanentemente sintonizzati sull’emergenza-Covid ad ogni ora del giorno e della notte, e senza che le contraddizioni che ammantano possano essere espresse o risolte.
Juventus-Napoli: non solo calcio
Prendiamo il caso dell’annullamento della partita Juventus-Napoli. Secondo una circolare emanata dal ministero della Sanità, che integra le esigenze del settore calcistico e di una equilibrata prosecuzione del campionato di serie A in accordo con la Lega e la Figc, l’autorità statale o locale (leggasi ASL) è l’unica che può studiare le soglie di rischio dei giocatori e di chi li circonda, stabilire le quarantene-soft, innescare i tracciamenti in caso di positività, dare il via libera o bloccare.
Agli azzurri di Gattuso è stato addirittura impedito di partire per la trasferta, ad opera dell’insindacabile giudizio dei camici bianchi campani. E tutti in isolamento.
La ASL avrebbe sconfinato dalle sue facoltà? Emette suggerimenti o obblighi? Cosa non ha funzionato? Il Napoli non ha rispettato il rigore delle regole ed è stato “punito”? Questo ce lo diranno gli esperti, ma è bastato a trasformare lo sport più amato dagli italiani in una uggiosa macchina amministrativa dai mille pistoni inferociti che un verdetto l’ha comunque esplicitato: se non è questa una dittatura sanitaria poco ci manca, con tutti i suoi modelli probabilistici, i suoi calcoli previsionali, che hanno spostato, e di parecchio, i poteri reali negli ultimi mesi.
La triste litania dei media
La salute pubblica è il mantra di questi giorni; asintomatici, terapie intensive, morti e curve di risalita del morbo la fanno da padroni nei notiziari nazionali, e non ci sono attenuanti concettuali e razionali che possano intaccare l’invadenza ossessiva di tipo matematico-statistico, le leadership emozionali alle quali è stata irreparabilmente sussunta ogni categoria del politico.
Basti vedere il risultato delle ultime elezioni e gli “uomini forti” che hanno fatto incetta di voti, incistati in governance ingombranti, imbarazzanti, convulse. Vuoi passeggiare all’aperto nel Lazio? Indossa la mascherina. In Veneto no.
Vuoi andare su un Intercity con partenza da Milano? Distànziati. Ma se prendi un locale lombardo puoi farne a meno. Come per qualsiasi aereo da mesi. Vai al cinema, ti misurano la temperatura, entri in un bar affollatissimo a colazione no. Fare una presentazione di un libro al chiuso è ormai quasi impossibile, in un supermercato a decine tutti insieme ok. Negli stadi italiani al massimo mille spettatori. In Germania il 20% della capienza, in Polonia il 25, svariate migliaia di paganti.
Se poi a questi dismorfismi comportamentali e giuridici aggiungiamo i contratti che la struttura commissariale che fa capo ad Arcuri ancora a fine ottobre chiuderà per l’incremento dei reparti salva-vita, le ancora esigue forniture di vaccini anti-influenzali, e la paura di secondo tipo che fa strage di cuori e sistemi nervosi, quella cioè, non di morire, ma delle supermulte ai pedoni sbendati, del probabile pattugliamento militare di crocevia e luoghi pubblici, e delle cartelle fiscali che in massa stanno pervenendo alle nostre abitazioni dopo una moratoria di qualche mese, beh, non dirci in un castello kafkiano, perennemente sotto processo, e sotto scacco di una vita diventata politraumatica e perturbante, è un miraggio. Quanto ci conviene sacrificare diritti e libertà se la Scienza diventa poliziesca e macrocefala, e la Politica scioccamente patriottarda e assiderata sull’algebra dei ricoveri?
Vie di fuga dalla città chiusa
Possiamo uscirne se consultiamo, magari, l’agile manualetto realizzato dall’architetto Sabrina Paola Piancone dal titolo Covid-19. Costituzione comitato e modulistica di riferimento che aiuta a districarsi nei meandri aziendali di sicurezza, sanificazione, divieti da far rispettare, rapporti fra datori di lavoro e dipendenti, regole da seguire, segnaletica e logistica che caratterizzano ambienti e relazioni di un’epoca, diciamo, insalubre come quella che ci tocca da marzo.
O possiamo uscirne come fa la scrittrice cinese Fang Fang nel suo Wuhan. Diari di una città chiusa (Rizzoli, pagg. 397, euro 15,90) miscelando, con leggerezza tipicamente orientale, l’intimismo della sofferenza (i giorni trascorsi fra le pareti domestiche, l’irrequietezza della asocialità coatta, il sole e le belle giornate non godute, il sospetto reciproco, gli amici che muoiono, le speranze e il futuro filtrati dai network e non dal calore degli sguardi e degli abbracci) con un’opera di derisione e corrosione delle irresponsabilità delle autorità centrali ree di aver diffuso come un inno all’onnipotenza, sin dalla fine del 2019, lo slogan: “Il virus non si trasmette da uomo a uomo: si può controllare e prevenire”.
Di queste oligarchie partitico-mediatiche, che si specchiano nel culto di una laica delirante divinità, Fang Fang mette in evidenza, in fin dei conti, l’arretratezza della loro capacità mistificatoria, quella che ha spinto a ritardi e manipolazioni, segreti imperiali e sfrontatezza comunicativa, e non a caso rivolgendosi a loro usa verbi come “nascondere”, “distorcere”, “insabbiare”, “fuorviare”.
In ogni dittatura c’è una dimensione vera e autentica che la menzogna di casta vessa inquina e scotomizza. E noi in che “dittatura” viviamo? Quella della sovrabbondanza di informazione, delle agende setting dei tg, del profitto come unica ratio anche a costo di seviziare con l’ansia milioni di persone, delle letture del reale non dualizzate fra chi sa e chi ignora, ma ischeletrite dall’inazione e dal lasciafarismo tele-plebiscitario, dall’audience e dalla stupidità, che lega entrambi, chi potrebbe insegnare e chi potrebbe capire.
Siamo pieni di “potenze”, perciò la nostra democrazia è illusoria. Con la differenza che altrove la cultura è il braccio armato del totalitarismo e degli indottrinamenti di massa, da noi, non meno nocivamente, è un lusso o un divertissement. Se altrove piangono Mao, noi piangiamo un macchinista che ogni tanto freni la locomotiva impazzita di un “progresso” che fa a meno di ogni sapere critico e umanistico. Anche di fronte all’aggressione di un “mostro” biologico.
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