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Così vicino al sole da bruciare: per questo lo ameremo sempre

di Marco Dotti

Il giallo di Van Gogh si sta spegnendo, ha decretato la scienza nei mesi scorsi. Al suo posto, un più brumoso ocra. Quel che non si spegne – e non si spegnerà nemmeno se e quando i Girasoli saranno sfioriti nel marrone – è il fascino che il pittore olandese da sempre esercita sul pubblico. Il segreto di questo fascino prova a spiegarlo Massimo Recalcati, psicoanalista, studioso di estetica, che in Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh (Bollati-Boringhieri, 2009) ha provato a scavare nella personalità del grande artista.
Per gli addetti ai lavori, Vincent Van Gogh è quello che «fa sempre numeri». Mentre per la gente le sue tele sono qualcosa verso cui si è inspiegabilmente attratti. Inevitabile che la notizia dell’imbrunimento del giallo-Van Gogh abbia destato sgomento…
Certo, ma per capire a fondo questo sgomento occorre andare direttamente a ciò che, per noi, “è” Vincent Van Gogh e da dove ha origine questo duraturo effetto-Van Gogh sul sistema dell’arte. Da un lato sia questo effetto, sia i numeri di cui parlava lei, sia lo “sgomento” in conseguenza della scoperta dei ricercatori sono un’inevitabile conseguenza del marketing che ha trasformato Van Gogh in un brand. Questo punto, però, pone dei problemi non irrilevanti: perché Van Gogh? Perché proprio lui è stato assoggettato a certi cliché, che evidentemente funzionano sul piano emotivo, del rapporto tra genio e follia, tra malinconia e destino?
Dunque non è una questione di pigmenti, altrimenti lo stesso panico varrebbe per Seraut o Cézanne…
Infatti, la domanda è un’altra: come è stato possibile ridurre – attraverso un meccanismo beffardo di quella che un tempo avremmo chiamato l’industria culturale – colui che ha il nome di un altro a un nome ancora, doppiamente altro? Mi spiego: Van Gogh nacque il 30 marzo 1853 esattamente un anno dopo la morte di suo fratello maggiore. Anche per il nuovo bambino, la madre scelse il nome Vincent. Questa iscrizione del nome di un altro, ma anche la coincidenza della data di nascita con quella della morte del fratello (lo stesso giorno, a distanza di un anno), fa sì che il “secondo” Vincent non concepisca mai la propria esistenza in quanto tale, ma in quanto surrogato di un’altra esistenza. Questo è un punto estramamente delicato, tenendo conto che la funzione del nome proprio è quella di iscrivere un soggetto non solo e non tanto nel registro dell’anagrafe, ma in quello assai più significativo dell’ordine simbolico. Proprio per questa ragione, la trasformazione del nome di “Vincent Van Gogh” in qualcosa di molto simile a un brand suona beffarda: colui che aveva il nome di un altro, diventa il nome di altro. Un marchio appunto.
Ma il giallo non c’entra proprio per niente?
Sarebbe ingenuo ignorare che tutti amiamo o abbiamo amato Van Gogh per la sua pittura, per le sue tele, per i suoi colori e per il suo “giallo” che, oggi, dicono stia svanendo a causa della composizione del colore. Tutti l’abbiamo amato o lo amiamo perché c’è qualcosa in lui – che è una singolarità così irriducibile all’universale – che tocca una corda universale. Van Gogh non mente sull’umano, dice una verità essenziale sull’umano. Il giallo-Van Gogh può essere visto come un segno di questa pratica di non menzogna sull’umano. Un segno paradossalmente confermato e non smentito dal suo deperimento.
Quale verità?
Quella che l’umano è sradicamento, assenza di origine, emergenza su uno sfondo vuoto ma, al tempo stesso, spinta incessante verso l’assoluto. Spinta ad accostare questo vuoto, tentativo di nominarlo, di fornirgli un’immagine. Forse anche di racchiuderlo in questa immagine. E poi c’è il grande elemento dell’incarnazione, della biografia come incarnazione dell’opera.
Un’incarnazione che avviene attraverso continue lacerazioni. Anche la ricerca dell’assoluto è nel segno di una preghiera spezzata…
Direi di più: l’assoluto, per lui, non ha solo il volto del bene, la luce non è solo l’elemento che genera la vita, ma anche quello che la brucia. È ciò che Lacan chiamava “la Cosa”. Nelle sue ultime opere, ad esempio quelle che ritraggono campi di ulivi, la presenza del disco inumano del sole non alimenta la vita, ma la ustiona perché la prossimità è eccessiva. L’assoluto diventa così, sempre per dirla in termini lacaniani, il luogo di un godimento che si è approssimato troppo alla scena del mondo e, approssimandosi troppo, la scompagina, la devasta. Questo elemento mi pare specifico del pensiero e della pratica di Van Gogh. C’è, in lui, un’ambivalenza ben esemplificata dal “girasole” che è al tempo stesso luce e tenebra, gloria e distruzione. È il giallo e il suo imbrunire.
Questo movimento contraddittorio, di cui Van Gogh non trova la sintesi (e forse neppure la cerca), non è una conseguenza del suo tentativo di sfondare nel reale? Forse è proprio in ragione di questo sfondamento, che non risente dell’air du temps, che riesce a toccare le corde dell’umano…
Prendiamo un’opera come I mangiatori di patate. A prima vista, la potremmo accostare a un grande tema della modernità, il cosiddetto “quarto stato”, il “popolo”, la “lotta di classe”, figure appunto di un tempo di sconvolgimenti sociali, molto prossimo al nostro. Eppure, se osserviamo attentamente i mangiatori di patate possiamo cogliere a pieno come il tema della lotta di classe, del conflitto, in una parola dell’ideologia non sia centrale. Come se Van Gogh fosse sempre eccentrico alla dimensione ideologica. È in questo senso che Van Gogh punta sempre al reale. Punta al reale sia nel rapporto col cristianesimo, sia nel rapporto con il socialismo, due grandi ideologie che, a fine Ottocento, arrivano a toccarsi. In Van Gogh c’è qualcosa che è eccentrico rispetto a entrambe. Dalla parte del cristianesimo, possiamo ricordare tutta la sua critica al dogma e alla sclerotizzazione del messaggio di Cristo, messaggio che sarebbe assolutamente decostruttivo rispetto a ogni forma di istituzione. E dall’altra parte, c’è l’idea di qualcosa da cui non ci si può liberare, un’emancipazione impossibile.
Anche per questa ragione il suo sguardo, oltre che al sole (all’assoluto), si rivolge agli ultimi (all’infimo), quegli uomini che spregiativamente già Marx chiamava “sottoproletariato”…
I contadini e i minatori che Van Gogh guarda e ammira non fanno classe. Non rientrano nella categorizzazione della “classe” della vulgata socialista, che era una vulgata “cittadina”. I minatori sono se possibile ancora più sotto rispetto ai sottoproletari cui accennava Marx: vivono “sotto terra”. Van Gogh si identifica con questi esclusi dalla scena del mondo, mentre la lotta di classe supporrebbe una conquista, un esserci sulla scena del mondo. Lui è invece interessato a questo sottrarsi dalla scena del mondo, a questa dimensione radicale dell’esclusione che sta alla radice della sua malinconia.
Alla dimensione verticale di alto-basso, assoluto-infimo, sole-terra, potremmo aggiungere anche quella nord-sud. Van Gogh compie il suo viaggio verso il sud, ed è un’esperienza quasi-estatica…
È un movimento che possiamo leggere in molte figure che spostano il proprio baricentro da nord a sud. Penso a Pier Paolo Pasolini, al suo passaggio dal Friuli a Roma. Poi Pasolini spostò ancora più in basso il proprio asse, da Roma alle borgate e dalle borgate all’Africa… Un movimento simile a quello di Van Gogh lo leggiamo nello scrittore americano Cormac McCarthy, in particolare nel suo romanzo La strada. Qui il sud e il mare diventano le uniche possibilità di giocarsi ancora qualcosa, nell’avvenire. C’è tutta la sfida dell’ereditare e dell’affrancamento, in questo passaggio. In Van Gogh lo spostamento da nord a sud coincide con l’approssimarsi progressivo nei confronti dell’assoluto, che prende corpo nella luce. Ma, come abbiamo già detto, il volto dell’assoluto non è per lui solo un volto glorioso: è anche tenebra e minaccia. Ricordiamo l’idea delirante di Van Gogh, nelle ultime fasi della sua vita, quando si convinse di aver contratto la malattia della luce. Lo dice ai medici, lo dice al fratello: «riportatemi a nord». Anche qui c’è uno strappo relativo alla formazione e alla possibilità di ereditare. L’eredità per Van Gogh è sempre uno strappo, una lacerazione, mai una lenta e progressiva acquisizione. Van Gogh è sempre troppo: troppo vicino al sud, troppo vicino al sole, troppo vicino alla luce.
In questo, Van Gogh tocca un’altra corda della nostra sensibilità: la difficoltà di ereditare, il trauma del passaggio.
Non dobbiamo vagheggiare l’eredità come una continuità armoniosa. L’eredità, il passaggio da padre in figlio, non è mai stata – se non in certe idealizzazioni à la Hegel – una metabolizzazione lenta e progressiva di ciò che é stato, non è un puro processo dialettico, un superamento conciliante di ciò che è stato. L’eredità è fatta sempre di strappi. In Van Gogh questa dimensione è messa in evidenza in modo potente. L’eredità implica sempre un resto di reale non metabolizzato. E di questo resto è fatta la pittura di Vincent Van Gogh.


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