Mondo

Così va in Uganda:o la giustizia o la pace

La clamorosa rinuncia della Corte penale internazionale

di Joshua Massarenti

Su una cosa la Corte penale internazionale (Cpi) e i rappresentanti delle comunità nordugandesi si sono trovati d?accordo: «Lavorare insieme per instaurare la giustizia e la riconciliazione, ricostruire le comunità e porre fine alla violenza che regna nel Nord dell?Uganda». Quest?intesa l?hanno resa pubblica presso la sede della Cpi, all?Aja, il 16 aprile scorso in una dichiarazione congiunta che costituisce l?ultimo atto dell?intricatissimo caso ugandese.
Per chi della faccenda non fosse a conoscenza, sarà bene specificare che di guerra civile stiamo parlando. Che questa perdura nel Nord del Paese dal 1986. E che sul terreno oppone il regime del presidente ugandese Yoweri Museveni e i ribelli dell?Esercito di resistenza del Signore (Lra) capeggiato da Joseph Kony, un sanguinario (acholi) convinto di voler imporre in Nord Uganda una teocrazia fondata sui Dieci comandamenti.

100mila morti
Le scorrerie di Kony si misurano con i morti che sino ad ora ha provocato (100mila), i minori che ha sequestrato (25mila) e il milione di persone che ha costretto a fuggire da una furia, la sua, di inaudita violenza. Incapace di sconfiggere il nemico con le sole armi, Museveni ha giudicato più opportuno interpellare la Cpi per aprire un?inchiesta internazionale sui crimini perpetrati dall?Lra.
Dopo lunghe riflessioni, il procuratore capo della Cpi, Luis Moreno-Ocampo ha aperto nel luglio 2004 quella che sarebbe diventata la prima inchiesta internazionale della Corte. Ma già all?epoca Ocampo aveva circoscritto i principali ostacoli della questione ugandese: la localizzazione e l?arresto dei leader ribelli; la legge di amnistia promulgata dalle autorità ugandesi e valida per i ribelli che depongono le armi (Kony compreso); l?appoggio tutt?altro che acquisito della comunità internazionale.
Manco a dirlo, questi ostacoli non sono mai stati superati. Anzi, contro ogni attesa, la situazione si è ulteriormente complicata. A lanciare l?allarme è stata l?autorevole organizzazione indipendente per la risoluzione dei conflitti International crisis group (Icg) nel suo rapporto Shock Therapy for Northern Uganda?s Peace Process pubblicato lo scorso 11 aprile.

La pace sfiorata
Eppure, mai come agli inizi di gennaio la pace era sembrata così vicina. Bisogna risalire al novembre 2004 quando Museveni propose una tregua armata per facilitare trattative di pace. Il 28 dicembre ci fu lo storico incontro tra la mediatrice governativa Betty Bigombe e il suo omologo dell?Lra, Sam Kolo. «La svolta era vicina», ricorda a Vita la Bigombe, convinta poi che «la pace in Sudan avrebbe spinto l?Lra a deporre le armi».
Già, il Sudan. Per anni, Kony fece della sua area meridionale una base di ripiego per riorganizzare le sue truppe sotto l?occhio vigile di Khartoum, pronto a sfruttare l?Lra contro i ribelli sud sudanesi dello Spla. Ma la pace siglata il 9 gennaio 2005 tra lo Spla e Khartoum spinse quest?ultimo a promettere l?espulsione della ribellione ugandese dal Sudan. Tutti, in Uganda, parlarono di un colpo di grazia decisivo inferto all?Lra. Ma da allora, il dialogo di pace si è inceppato.
Di cause, l?arcivescovo di Gulu John Baptist Odama ne coglie tre. «A cominciare dal cessate il fuoco, sospeso a più riprese da Museveni per privilegiare la soluzione militare». A questo, si aggiunge la continua defezione di comandanti dai ranghi dell?Lra. «Un fenomeno che negli ultimi mesi aveva spinto Kony al dialogo. Ma nel caso di Kolo», arresosi a metà febbraio, «ha avuto l?effetto opposto».
Ne sa qualcosa Betty Bigombe, ?costretta? – sono parole sue – «a trovare nuovi interlocutori, quindi a rilanciare da principio le trattative».
La terza e ultima causa è forse quella più clamorosa e riguarda la Corte penale internazionale, già pronta nel febbraio scorso ad emettere i suoi primi mandati di cattura contro Kony & co. «Sin dall?inizio», confida a Vita l?arcivescovo Odama, «abbiamo espresso il timore che, visto il rischio di finire processati all?Aja, questa inchiesta avrebbe convinto i capi dell?Lra che le trattative si sarebbero rivelate inutili». Per Odama, la brusca ripresa degli attacchi ribelli contro le popolazioni civili (un centinaio i morti finora recensiti da febbraio) va letta anche in questa ottica. «Ed è anche per questo motivo che ci siamo recati in Olanda per discutere con Ocampo».

L?inchiesta sospesa
De facto, tra il 16 e il 18 marzo scorso, una delegazione di leader acholi guidata dallo stesso Odama chiese al procuratore capo della Cpi «di essere cosciente del processo di dialogo e del nostro processo tradizionale di giustizia e di riconciliazione». In altre parole, di sospendere la sua inchiesta. A questa visita ne è seguita in aprile un?altra, all?indomani della quale il portavoce della Cpi, Yves Sorokobi ha per la prima volta paventato l?ipotesi che «la Corte sospenda la sua inchiesta nell?interesse di un accordo di pace».
Il che «non significa che l?inchiesta venga definitivemente chiusa» precisa a Vita lo stesso Sokorobi. Fatto sta che per Odama, «è ormai prioritario privilegiare l?amnistia e una riconciliazione da attuare con la nostra giustizia tradizionale basata sul perdono. L?unico modo affinché Museveni e Kony superino i reciproci sospetti, ma soprattutto l?unico modo perché la gente possa tornare a parlarsi».
Più o meno dello stesso parere è Betty Bigombe, convinta che «la Cpi sta lavorando in un contesto di guerra aperta troppo delicato. La sua inchiesta sarebbe efficace in una fase post conflict». Di sicuro non obietterà il presidente Museveni, scontato nel ribadire alla Cpi la «necessità di portare avanti le sue investigazioni contro l?Lra», ma sin troppo conscio che l?inchiesta della Cpi vale – dixit Sokorobi – «per tutti coloro che in questa guerra si sono macchiati di crimini». Quindi anche per i militari del suo esercito.

La guerra vista da vicino
Un dottore armato di passione

Guerre civili, epidemie, colpi di Stato e sofferenze. Questo il clima sociale e politico ugandese in cui ha vissuto e convissuto Alberto Reggiori, un medico chirurgo italiano che a cavallo tra gli anni 80 e 90 ha offerto un prezioso contributo ai progetti di emergenza e di sviluppo promossi dall?Avsi, l?Associazione volontari per il servizio internazionale presente in Uganda da oltre 21 anni. Le sue esperienze, contraddistinte dalla strenua passione di salvare vite umane e dall?umiltà di chi sa ascoltare l?altro, Reggiori le ha raccolte in un?autobiografia dal titolo inequivocabile: Dottore, è finito il diesel. La vita quotidiana di un medico in Uganda fra ammalati, poveri e guerriglia (1985-1996). Perché nonostante le cifre spaventose del conflitto, i proclami degli uni (governanti) e degli altri (ribelli) e l?indifferenza (reale) della comunità internazionale, la guerra Reggiori ha saputo raccontarla a 360 gradi. Ivi comprese la nascita dei figli, la compagnia della moglie e degli amici, la riconoscenza dei pazienti. Il tutto senza retorica.

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