Non profit
“Così strappiamo i bambini alla morte per fame”
Tra le corsie del Saint Luke, unico ospedale non profit
DA WOLISSO – Dei tre gemelli uno vive per miracolo. Nella stanza dell’ospedale Saint Luke di Wolisso, in Etiopia, due letti affiancati ospitano cinque persone. Sul primo c’è una mamma, un bambino vispo di un anno e il suo gemello. Accoccolata sul secondo, una parente tiene in braccio l’ultimo dei tre fratellini. È nato dallo stesso parto ma non assomiglia agli altri, dovrebbe pesare almeno una decina di chili e arriva a mala pena a tre. La mamma mostra orgogliosa il figlio più forte.
Nella regione dell’Oromia, in un contesto rurale dove la miseria costringe a scegliere chi ha più possibilità di sopravvivere, il Saint Luke è segnalato dall’Unicef come centro d’eccellenza per la lotta alla malnutrizione. Riesce a riconsegnare alla vita circa 350 bambini all’anno, quasi uno al giorno, grazie a una “nutrion unity” e a una pediatria create con il contributo della Provincia di Trento. Una goccia in mezzo al mare, ma la prassi introdotta, che punta sul coinvolgimento delle mamme e sull’educazione alimentare sta facendo scuola.
Fondato dall’ong Medici con l’Africa Cuamm e di proprietà della chiesa cattolica etiope il Saint Luke è la più importante struttura sanitaria non profit dell’Etiopia e, in questo distretto a 130 chilometri a ovest da Addis Abeba, l’unico ospedale di riferimento per almeno un milione di abitanti. Lavora in partnership con il governo, che contribuisce per il 23 per cento alle spese della struttura. Un dato non scontato da queste parti. «Data la scarsità di risorse disponibili per il Welfare il governo sta incentivando la privatizzazione dei servizi sanitari» spiega tra le corsie Claudio Ble, coordinatore medico dell’ospedale e cooperante del Cuamm. «Ma le strutture private coprono i bisogni di una ristretta èlite qui in Etiopia, e restano inaccessibili a tutto il resto della popolazione». A Wolisso un team di medici che, fra italiani ed etiopi, ammonta a 12 persone deve far fronte a 200 ammissioni di nuovi pazienti al giorno.
La fuga di cervelli
«Le risorse umane qui sono un problema, anche a causa della fuga di cervelli» spiega Ble. «Al Saint Luke abbiamo un ortopedico, in tutto il resto del Paese ce ne sono meno di una decina formati a questo livello». Tra le cause dell’emorragia di giovani laureati ci sono gli stipendi bassi (un’infermiera guadagna cento euro al mese) ma anche la bassa qualità delle strutture e delle attrezzature disponibili, un handicap per la crescita professionale. Il governo sta contrastando la fuga dei professionisti esercitando un controllo sempre più stretto sulle richieste di uscire dal Paese. E punta sulla figura dell’ “health officer”, un dipendente statale con la qualifica di infermiere che, dopo un’ulteriore formazione triennale, può svolgere il ruolo di medico a livello ambulatoriale.
Il diritto alla salute è ancora una sfida
A Wolisso le donne in gravidanza e i bambini sotto i cinque anni non pagano la quota minima richiesta ai pazienti, «e comunque nessuno viene rimandato indietro senza cure», afferma Ble. Un obiettivo che non potrebbe essere raggiunto senza la solidarietà che arriva dall’Italia, attraverso gli enti locali, i donatori privati e il ministero degli Affari esteri.
«Una delle sfide più difficili che siamo riusciti a vincere è la copertura dei costi dell’ospedale» afferma il medico del Cuamm. «I grandi donatori vogliono vedere le strutture, i muri e i padiglioni, è difficile trovare chi sostiene i servizi, troviamo più disponibilità da parte della cooperazione decentrata e dalle associazioni».
Al Saint Luke il reparto di neonatologia è una stanza con due incubatrici. A mostrarcela è Corrado Cattrini, che dopo una carriera da pediatra in Italia ha deciso di donare un anno di lavoro all’ospedale di Wolisso. «Vedi sfuggirti delle vite solo perché non ci sono macchinari adatti» racconta. «Qui non c’è un respiratore neonatale, e anche se ci fosse non ci sarebbero persone in grado di gestirlo. Il protocollo è durissimo: se un bambino dopo il parto ha difficoltà respiratorie o ce la fa da solo in poco tempo o bisogna lasciarlo andare».
La malaria raddoppiata e il vuoto lasciato dai donatori
A Wolisso i medici hanno il polso della situazione sanitaria in Etiopia. La malaria, per esempio, sta aumentando, nonostante i programmi messi in atto a livello internazionale e gli aiuti destinati al Paese. «In questa regione i casi sono raddoppiati nell’ultimo anno e non sappiamo come spiegarcelo» afferma il coordinatore medico dell’ospedale. «Sappiamo che vengono distribuiite meno zanzariere. Le fondazioni come quella di Clinton o di Bill Gates hanno terminato alcuni programmi di prevenzione, dopodiché è rimasto il vuoto». Un altro dato nuovo registrato all’ospedale di Wolisso è l’aumento delle malattie mentali e del disagio psichico: «Il Paese sta attraversando rapidi cambiamenti» afferma Ble. «Si passa da un mondo rurale dove non esiste nemmeno l’aratro alla città con internet e i grattacieli. A ciò si aggiunge la frustrazione di vivere senza prospettive, c’è il miraggio di una vita diversa e l’impossibilità di raggiungerla». Lungo la strada per Addis Abeba il paesaggio è di tipo rurale: gruppi di capanne con qualche mucca e capra al pascolo, donne che cammiano trasportando pesanti carichi di legna da ardere. Durante una sosta un ragazzo vestito all’occidentale sbuca sulla strada: «What shall I do?», «Cosa devo fare?» è la sua prima frase. «Qui non c’è nulla, non c’è educazione» insiste, «Cosa devo fare?».
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