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Così si nasce nei giorni del coronavirus

Nelle ultime settimane diversi ospedali italiani hanno iniziato a modificare la routine dei parti: molte strutture hanno predisposto aree separate, isolate, dove accogliere le donne positive. Ma non esistono linee guida valide su tutto il territorio nazionale

di Sabina Pignataro

«Dovremmo contare anche chi nasce, non solo chi muore. È la vita che sboccia, ostinatamente, in barba alle avversità». La voce del filosofo Leonardo Caffo è ancora impastata, quando lo raggiungiamo telefono. Il 12 marzo, in piena emergenza Coronavirus è nata la sua prima figlia, Morgana. «Appena l’ho vista ho pianto tutte le lacrime che non avevo pianto nella mia vita. Lacrime di gioia, certamente, ma anche di liberazione». Sua figlia infatti è nata a Torino, ma, vivendo sia lui che Carola, la sua compagna, a Milano (che era già zona rossa), appena sono arrivati alle Molinette i medici hanno fatto il tampone alla mamma e poi, in attesa del risultato, l’hanno messa in isolamento. «Nessuno poteva vederla, neanche io, e i medici le facevano solo le visite strettamente necessarie. «Anche quando è uscita dall’isolamento, perché il tampone era negativo, io non ho potuto starle accanto», racconta. «L’ho vista solo quando è entrata nella fase più attiva del travaglio, in sala parto. Adottando tutte le precauzioni, ma senza indossare nessuna tuta speciale, finalmente ho potuto avere un ruolo attivo, partecipe».

Oggi, prosegue, «siamo felicissimi, ma la nostra felicità è stata in parte contaminata dalla paura, dallo stress di questi giorni, da tutte le domande alle quali non sapevamo (e non sappiamo ancora) dare risposta. Una su tutte: riusciremo a proteggerla da questo Mostro, dal virus?». Ora tutti e tre sono a casa, ma la situazione è davvero straordinaria, a tratti pesante. «Vorrei portare Morgana a fare una passeggiata, vorrei farle conoscere il tepore dei raggi del sole, vorrei festeggiare con Carola e con le nostre famiglie, che sono per lo più in Sicilia: ma non si può. Allora quando esco a prendere i pannolini, a fare un minimo di spesa, mi permetto di piangere. Poi quando torno da a casa porto loro tutta la positività di cui sono capace. Parafrasando il filosofo Gilles Deleuze, “se proprio si deve morire, che almeno si muoia dal ridere”», dice. Ma alla morte Leonardo Caffo non ci pensa affatto: «in verità – confessa- non ho mai desiderato tanto vivere come da quando è nata mia figlia».

Quello che hanno vissuto Leonardo e Carola a Torino non è tanto diverso da quello che stanno affrontando tante famiglie da quando il coronavirus ha accresciuto la sua diffusione. Nelle ultime settimane diversi ospedali italiani hanno iniziato a modificare la routine della nascita: molte strutture hanno predisposto delle aree separate, isolate, dove accogliere le donne positive al Covid-19, alcune hanno fortemente limitato l’accesso a nonni, parenti e amici, consentendo solo ai papà di stare in corsia o in sala parto. In altre anche l’acceso ai padri ha subito restrizioni. Ovunque niente fiori, regali, palloncini, fiocchi e nastrini. Altre hanno addirittura ridotto la presenza dei padri, consentendo loro di far visita alle madri solo in determinate fasce orarie.

I dati e le testimonianze che abbiamo raccolto in questi giorni lasciano intendere che ogni struttura ospedaliera si stia organizzando autonomamente. I motivi sono molteplici: primo, non ci sono linee guida condivise a livello nazionale (i temi sono troppo maturi); secondo, nel nostro Paese le regioni sono autonome in materia di sanità; terzo, le singole città sono colpite dal Covid-19 in maniera e in tempi differenti. Ogni giorno, ovunque, le indicazioni per il personale che gestisce e organizza il parto, mutano in relazione all’evoluzione del quadro sanitario regionale e alle decisioni che vengono prese a livello politico (ad esempio se vengono adottati nuovi decreti).

Per quanto riguarda gli ospedali lombardi, ovunque, i padri possono continuare ad assistere al parto (se la madre non mostra segni di positività al Covid-19) ma quasi in ogni struttura è sconsigliata la visita in reparto dei fratellini e delle sorelline. Racconta Elisa (nome di fantasia) che ha partorito ieri all’ospedale Niguarda di Milano, che «all’ingresso del reparto c’è un cartello che sconsiglia la visita di altri figli, perciò anche noi non abbiamo fatto venire il nostro primogenito che ha tre anni. Ci spiace molto ma se serve a prevenire il rischio di contagio, va bene così. Si conosceranno a casa tra pochi giorni. Per il resto – rassicura- il mio è stato un parto simile al precedente: ho potuto tenere il mio bambino pelle a pelle e ho potuto avvicinarlo al seno già dai primi momenti». In alcuni ospedali della Lombardia, in caso di parto fisiologico, e di buona salute di mamme e neonato, genitori e personale medico possono concordare dimissioni precoci: questo riduce il tempo di permanenza di mamma e neonato in un luogo che potrebbe essere a rischio, e allo stesso tempo favorisce il ricongiungimento con il resto della famiglia, un elemento importantissimo per chi ha altri figli a casa.

Resta attivo il servizio di visita domiciliare gratuita dell'ostetrica nei sette comuni a nord di Milano raggiunto dal progetto “Passi Piccoli, Comunità che Cresce”, finanziato dall’impresa sociale Con I Bambini. Nel rispetto delle Disposizioni vigenti, se non è possibile affrontare le problematiche al telefono, via Skype o video, le ostetriche continuano a recarsi a casa delle famiglie per aiutarle nella gestione dei dubbi, delle fatiche e delle difficoltà del periodo che segue la nascita.

Nelle Marche la situazione è leggermente diversa. «Le donne gravide in lunga degenza non possono ricevere nessun tipo di visita, neanche quella dei famigliari», racconta Michela (anche il suo è un nome di fantasia) che è ostetrica al Salesi, punto nascita di primo livello di Ancona. «Quelle che invece sono in procinto di partorire, a travaglio attivo, possono contare sulla presenza di una persona per tutto il travaglio e per qualche ora dopo la nascita. E poi basta, fatta eccezione per chi ha affrontato un taglio cesareo». Racconta Elisa che per alcune è difficile: «si sentono sole, spaventate, arrabbiate. Noi cerchiamo di dare loro tutta la forza possibile. La nascita è un evento incredibile già di per sé. Venire al mondo in queste condizioni è davvero straordinario».

«All’Ospedale Fatebenefratelli-Isola Tiberina di Roma – spiega Elisabetta D'Amore, coordinatrice delle ostetriche – sono stati creati dei percorsi ben delineati che all’accesso in pronto soccorso definiscano la tipologia di paziente e quindi le procedure da seguire per assicurare il massimo grado di sicurezza alle mamme, ai neonati e agli operatori. L’accesso ai papà durante il travaglio è conservato, così come lo skin to skin. I famigliari posso fare visita, ma solo per un’ora al giorno».

In questa cornice così disomogenea, l’unica cosa certa è che, in quasi in tutti gli ospedali di Italia, i padri non possano assistere al parto che se le mamme sono positive al Coronavirus. Le mamme possono procedere comunque con un parto vaginale, ammenochè non presentino un quadro clinico critico e allora si procede di preferenza con un parto cesareo. Ma ogni scelta dipende dalle condizioni cliniche della donna, dall’età gestazionale e dalle condizioni fetali. Ad oggi le norme più severe sembrano essere quelle del Veneto dove, in alcuni ospedali, i padri non possono mai entrare in sala parto.

Con l’obiettivo di limitare queste disparità geografiche, la comunità scientifica italiana dei neonatologi, pediatri, ginecologi e ostetriche (SIN, SIMP, SIP, SIGO, AOGOI, AGUI, SIAARTI e FNOPO) sta lavorando insieme all’Istituto Superiore di Sanità per fornire indicazioni utili ai professionisti sanitari su come gestire al meglio gravidanza, parto e allattamento. Le poche notizie disponibili su COVID-19 in gravidanza sembrerebbero per ora piuttosto positive e rassicuranti. Per quanto riguarda l’allattamento, il rooming-in (cioè la copresenza della madre e del neonato nella stessa stanza) e altre disposizioni, ogni scelta «dipende dal quadro clinico, dal desiderio della madre e dai diversi contesti locali, dato che alcuni ospedali hanno problemi logistici e di spazi», spiega Angela Giusti, ricercatrice dell’ISS, che, insieme a Serena Donati, direttrice del Reparto Salute della Donna e dell’Età Evolutiva, cura gli aggiornamenti che sono pubblicati dall’ISS sul portale Epicentro. (Le ultime indicazione sono disponibili qui )

«Dai racconti delle donne, dei partner e dei professionisti e professioniste – aggiunge Giusti- sembra che le pratiche assistenziali in emergenza riflettano le prassi consolidate nelle diverse strutture: laddove la prevalenza dell’allattamento era già bassa, si tende ad applicare il principio di precauzione in modo più stringente e a separare la madre e il bambino, limitando o proibendo l’allattamento. Le Agenzie internazionali, tra cuil l’OMS , sono però chiare su questo punto: la trasmissione verticale madre-neonato non è stata documentata e l’allattamento non è solo considerato sicuro, ma è anche riconosciuto come un potenziale fattore di protezione». La società italiana di neonatologia chiarisce inoltre che anche «in caso di infezione materna da SARS-CoV-2 il latte materno non viene al momento ritenuto veicolo di trasmissione». Qualora una madre sia positiva e desideri allattare il proprio figlio, lo può fare, a patto che protegga il piccolino, indossando la mascherina e lavandosi attentamente le mani in particolare prima delle poppate. Non sembrerebbero, inoltre, esserci controindicazioni alla pratica del rooming-in: «Qualora il bambino restasse in ospedale assieme alla madre positiva – scrivono i neonatologi- è bene che si provveda a farlo dormire nella propria culletta a distanza di almeno 2 metri dalla madre».


Photo by 🇸🇮 Janko Ferlič on Unsplash

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