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Così muoiono in mare i bambini siriani
L'immagine urta le coscienze ma rappresenta quello che ora non si può più ignorare: servono risposte concrete e urgenti al genocidio in atto nel Mediterraneo. Questo è troppo, sveglia, ci ha scritto gli attivisti che hanno rilanciato, invano, il sos alle Guardie costiere come si è consumata la scorsa notte l'ultima strage nel mare tra Grecia e Turchia: dodici morti, tra cui il piccolo Aylan nella foto
Niente scuse: questo è troppo. Continuare a voltarsi dall'altra parte o guardare come muoiono i bambini siriani? Non ce l’hanno fatta, in dodici persone, tra cui tre bambini – il più piccolo, Aylan di tre anni, lo potete vedere con i vostri occhi, in un immagine che urta le coscienze ma che, a questo punto, serve come ultimo allarme e baluardo per restare umani e soprattutto obbligare i decisori politici europei ad agire per fermare questo genocidio – sono morte tentando di attraversare i miseri quattro chilometri che separano la località costiera turca di Bodrum dall’isola greca di Kos. I quattro superstiti? Salvati da alcuni pescatori.
Donne, uomini e bambini che ora sono morti ma che potevano essere salvati: questa è la verità che fa più male. Perché questi profughi, che avevano diritto all’asilo non appena usciti dal loro Paese in guerra, la Siria, quando il motore della barca si è spento lasciandoli in balia delle onde hanno lanciato l’allarme con i loro cellulari. L’hanno lanciato alla rete di attivisti volontari che da mesi, se non anni, vivono con l’orecchio incollato al telefono tentando di salvare più persone possibili: “appena raccolta la chiamata di sos e quindi le loro coordinate, è stata chiamata più volte la Guardia costiera greca, anche grazie all’aiuto dell’ong Watch the med. Ma non c’è stato nulla da fare, un giorno e una notte di chiamate ma nessuno è andato a salvarli, e sono sopravvissuti meno della metà dei presenti sulla barca. Un orrore”, racconta la volontaria italiana Simona Pisani.
Ecco come muoiono dodici innocenti, quindi. Tra queste righe potete vedere lo screenshot con la localizzazione dell’imbarcazione e il lancio del sos al Comando centrale di Roma della Guardia Costiera, “tentativo in questo caso inutile, perché mi è stato detto che la prassi era quella di chiamare direttamente i greci. Contrariamente a molte altre volte in cui l’autorità italiana aveva avviato il protocollo per avvertire d’urgenza i colleghi greci, che si erano poi immediatamente mossi, com’è avvenuto nella precedente telefonata in cui hanno recuperato 100 persone sbarcate da più di 24 ore – tra esse una donna quasi a termine di gravidanza – tra le rocce dell’isola di Samos”.
Le chiamate degli attivisti non sono quindi bastate per convincere i greci a far uscire le loro navi: “ci hanno risposto che erano molto occupati con altre emergenze”. A livello ufficiale, si parla di problemi di fondi e di mancanza di personale (un ultimo stanziamento di fondi Ue per la Grecia è ancora in stand by senza un perché, come ha denunciato nei giorni scorsi l’europarlamentare Barbara Spinelli in una lettera sottoscritta da 40 colleghi), “il risultato concreto è che i profughi continuano a morire”, sottolinea Pisani.
Le chiamate degli attivisti non sono quindi bastate per convincere i greci a far uscire le loro navi: “ci hanno risposto che erano molto occupati con altre emergenze”.
Ma c’è anche un breve video, che ancora di più lascia senza parole (è stato caricato su youtube nella notte da un altro attivista e tradotto in inglese, invano perché il salvataggio di fortuna è stato operato da pescatori di passaggio): si vedono le persone sulla barca, i bambini estenuati da sete e sole, la paura di non farcela nel volto di una donna e nella voce di chi parla: alcuni di loro, in effetti, non ce l’hanno fatta. “Il loro sacrificio merita giustizia, senza più indugi: si attivino al più presto le cancellerie europee. Servono corridoi umanitari”. Ora.
Nota della direzione: La foto e le notizie e il video che vedete pubblicate qui ci sono state inviate dalla rete di volontari che ogni giorno stanno in ascolto per captare gli Sos che arrivano dai cellulari dei migranti in fuga. “Questo è troppo” ha scritto il Guardian; “Questo no. Sveglia”, abbiamo scritto noi che abbiamo pubblicato il racconto dei volontari in Italia, leggete il racconto della volontaria e rileggetelo. Ci sono cose che non solo si devono vedere, ma di più che si devono “guardare”, piegandosi sulla tragedia per scovare dentro noi ciò che resta della pietas e magari piangere come ha scritto qualcuno di voi, o pregare per chi lo vuol fare. Piegarsi e commuoversi per muoversi e uscire dalla nostra inerzia. Guardare e far vedere il frutto dell'inerzia delle istituzioni europee, della nostra vigliaccheria e ipocrisia. Girar la faccia dall'altra parte? No, bisogna guardare per dire “Io non rinuncio alla mia umanità. Li voglio aiutare” e pretendere che la Comunità internazionale finalmente si muova. Il piccolo Ayan arrivava da Kobane la città siriana al confine della Turchia e teatro da oltre due anni di feroci combattimenti con l'IS. Lì è impossibile vivere, e il mondo fa spallucce. (r. b.)
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