Famiglia

Così l’affido di Paula ha cambiato la nostra vita

Una dodicenne del Sudamerica, arrivata in Italia sola, con un viaggio rocambolesco. Una coppia, Marcello e Dante, che diventa per lei famiglia. È uno degli affidi di minorenni migranti soli realizzati dal progetto Ohana. «Le tavole da pranzo sono campi di battaglia, i silenzi che seguono le domande sono iceberg davanti al transatlantico delle nostre buone intenzioni. I sorrisi e gli abbracci, però, ti fanno dire che stai facendo qualcosa di buono»

di Marcello e Dante

La settimana scorsa, mentre uno di noi due cercava la valigia per un viaggio di lavoro, l’altro gli chiedeva se avesse già guardato “da Paula”. La camera degli ospiti, che prima ancora era lo studio, da un po’ di mesi è diventata qualcos’altro. Da agosto è la camera da letto di Paula, che ha 12 anni, viene dall’Ecuador ed è arrivata in Italia in maniera rocambolesca sei anni anni fa. Ha vissuto prima con due zie in provincia di Brescia e quindi, prima di arrivare a casa da noi, in una comunità per minori della Brianza. Quando è arrabbiata con noi – capita, anche se non siamo ancora troppo bravi a capire il perché – Paula ce lo ricorda che quella è camera sua: "Puoi uscire? Voglio stare da sola in camera mia", dice accompagnandoti alla porta.

Io e il mio compagno siamo diventati genitori affidatari di una minorenne migrante sola da pochi mesi e ancora dobbiamo prenderci la mano. Non sappiamo quanto Paula vivrà con noi, presumiamo più di due anni ma negli affidi non ci sono certezze. Però sappiamo già che ci ha cambiato la vita. La notte, prima di addormentarci, ci raccontiamo quello che Paula ha combinato a scuola. La mattina ci svegliamo con il rumore della porta della sua camera che si apre. I suoi oggetti e la sua musica riempiono la casa, così come l’alternarsi dei suoi stati d’animo riempie la nostra testa. Il più delle volte è allegra e casinista, facciamo fatica a starle dietro, altri giorni prevale la tristezza. Non ha scelto lei di lasciare la comunità dove si trovava: glielo hanno proposto perché le hanno spiegato che in famiglia si cresce meglio e adesso spetta a noi dimostrarle che è vero. Il suo entusiasmo ci fa stare sereni e ci fa credere che lo abbia già capito, mentre i suoi giorni neri ci fanno temere di non essere bravi abbastanza. L’affido non è materia per centometristi, piuttosto per podisti: le cose cambiano molto lentamente, giorno dopo giorno.

Non ha scelto Paula di lasciare la comunità dove si trovava: glielo hanno proposto perché le hanno spiegato che in famiglia si cresce meglio. Adesso spetta a noi dimostrarle che è vero. Il suo entusiasmo ci fa credere che lo abbia già capito, mentre i suoi giorni neri ci fanno temere di non essere bravi abbastanza. L’affido non è materia per centometristi, piuttosto per podisti: le cose cambiano molto lentamente, giorno dopo giorno.

Ci sono storie della sua famiglia d’origine che non ci ha mai raccontato e che chissà se ci racconterà mai. Ci sono consuetudini, abitudini familiari che si costruiscono poco a poco, lentamente. Una foto mostrata dopo tanto tempo e che era nascosta. Una confidenza in più sul compagno di classe, un racconto della sua vita di prima. La richiesta di fare insieme quel balletto che ha visto sul Tik Tok della compagna di classe, il peluche che scompare dal letto e finisce nell’armadio, perché addormentarsi non è più un problema.

Vorremmo farle leggere quel famoso brano del Piccolo Principe per spiegarle che una volpe non si addomestica in poco tempo, ma se c’è una cosa che abbiamo imparato presto è che tocca a lei scegliere le parole con cui interpretare quello che sta vivendo. Paula ci chiama con il nostro nome di battesimo. A volte, però, capita che una commessa al supermercato, vedendoci assieme, si rivolga a uno di noi con il nome di papà. Quando ha fatto il vaccino, ci siamo presentati come genitori affidatari. In ognuna di queste volte, la guardiamo sottecchi. Come le suonano queste parole? C’è un modo per tenere assieme la sua vita di oggi, quella precedente, senza che senta del male, della nostalgia, del risentimento? Quali sono le parole giuste per la sua famiglia di adesso? Sono alcune delle domande, molte, per cui non abbiamo risposte.

Paula ci chiama con il nostro nome di battesimo. A volte, però, capita che una commessa al supermercato, vedendoci assieme, si rivolga a uno di noi con il nome di papà. Quando capita, ci guardiamo sottecchi. Come le suonano queste parole? C’è un modo per tenere assieme la sua vita di oggi e quella precedente, senza che senta male, nostalgia, risentimento? Quali sono le parole giuste per la sua famiglia di adesso? Sono alcune delle domande, molte, per cui non abbiamo risposte.


Sei anni fa, quando abbiamo messo su casa, io e il mio compagno sapevamo già che questo appartamento sarebbe stato aperto agli altri: abbiamo costruito un tavolo grande in sala per ospitare gli amici a cena, abbiamo pensato a una seconda camera per gli ospiti dove, prima di lei, hanno vissuto alcuni amici per pochi mesi, una rifugiata politica pakistana per quasi due anni. È il nostro modo di pensare la famiglia: un luogo dove si accolgono le persone a cui si vuole bene e se ne conoscono di nuove. Quando abbiamo conosciuto il progetto Ohana per l’affido di minorenni migranti soli, dopo una veloce ricerca su Internet, abbiamo deciso che avremmo provato. Noi l’affido, quello tradizionale, l’avevamo già tentato negli anni precedenti, ma senza successo. Perché in Italia è difficile per tutti, per una coppia di uomini ancora di più. Due anni fa abbiamo preso contatto con Ohana ed eravamo pieni di paure: sarebbe stato un altro buco nell’acqua? Le educatrici del progetto ci hanno spinto a tentare, ci hanno incoraggiato, ci hanno formato su cosa significa accogliere un ragazzo straniero, ci hanno incluso dopo lunghi colloqui, anche con psicologi, nelle famiglie accoglienti. Con le nostre caratteristiche, i nostri punti di forza, le debolezze, che dipendono da tante cose e che sono molto di più del nostro orientamento sessuale. Ci sono stati i mesi di attesa, difficili. Ci chiedevamo se sarebbe mai successo che quella stanza ora sgomberata si sarebbe riempita e, infine, è arrivata la proposta. "Ci sarebbe una ragazza di un’età più piccola di quella a cui forse pensavate, ve la sentite di ospitarla?". Sì, ce la sentivamo. Immaginavamo di ospitare un sedicenne dal Nord Africa, invece è arrivata una ragazzina di 12 anni dal Sud America. Grande la nostra sorpresa, ma immaginiamo che la sua lo sia stata ancora di più. Siamo andati a incontrarla in comunità, abbiamo parlato con i suoi educatori. Abbiamo conosciuto pezzi della sua storia, ci siamo incontrati. Prima per poche ore, piano piano per sempre più ore fino a quando, una notte, è venuta a dormire da noi. Ed è rimasta sveglia tutto il tempo, per l’emozione. Un po’ anche noi, dall’altra parte del muro.

Noi l’affido, quello tradizionale, l’avevamo già tentato ma senza successo. Perché in Italia è difficile per tutti, per una coppia di uomini ancora di più. Due anni fa abbiamo preso contatto con Ohana ed eravamo pieni di paure: sarebbe stato un altro buco nell’acqua? Le educatrici del progetto ci hanno incoraggiato. Con le nostre caratteristiche, i nostri punti di forza, le debolezze, che dipendono da tante cose e che sono molto di più del nostro orientamento sessuale.

Adesso che l’affido è infine cominciato, adesso che abbiamo fatto le prime vacanze assieme, cominciato la scuola, la domanda a cui ancora facciamo difficoltà a rispondere è: perché lo fate? Ci viene da dire perché possiamo farlo. Abbiamo una casa grande, abbiamo amici e parenti che ci supportano, abbiamo lavori e un rapporto stabili che ci consentono di dividerci i compiti. Non ci basta più andare in manifestazione, ai seggi elettorali per dire con i nostri piedi e il nostro voto che non ci piace quello che fa l’Italia oggi: possiamo fare qualcosa in più e lo facciamo. La cosa forse più bella è che lo facciamo insieme a tutte le altre famiglie che hanno intrapreso con noi questa strada: ci incontriamo una volta al mese e ognuno racconta le sue esperienze, le sue gioie, ma soprattutto le frustrazioni, le fatiche, i momenti di difficoltà. Abbiamo una chat – la utilizziamo spesso – dove le educatrici ci seguono giorno per giorno, ci rassicurano. A volte basta poco, sapere che altri prima di noi hanno avuto le stesse fatiche, per affrontarle con più forza e senza scoraggiarsi.

Immaginavamo di ospitare un sedicenne dal Nord Africa, invece è arrivata una ragazzina di 12 anni dal Sud America. Grande la nostra sorpresa, ma immaginiamo che la sua lo sia stata ancora di più. Abbiamo conosciuto pezzi della sua storia, ci siamo incontrati. Prima per poche ore, piano piano per sempre più ore fino a quando, una notte, è venuta a dormire da noi. Ed è rimasta sveglia tutto il tempo, per l’emozione. Un po’ anche noi, dall’altra parte del muro.

Non è una passeggiata per nessuno: non lo è per i ragazzi e le ragazze che nelle nostre famiglie trovano abitudini, modi di fare, regole a cui non sono abituati. Non lo è per noi che ospitiamo persone da cui ci separano culture, classi sociali, barriere generazionali che ce li rendono a volte incomprensibili, alieni. Le tavole da pranzo sono campi di battaglia, i silenzi che seguono le domande iceberg davanti al transatlantico delle nostre buone intenzioni. I sorrisi e gli abbracci, però, sono le cime più alte che ripagano le fatiche. È il momento in cui ti dici che stai facendo qualcosa di buono.

Ci sono parti della vita di Paula che non conosceremo mai e luoghi del suo cuore e della sua testa dove non la possiamo raggiungere. Ma questo forse non è vero di tutte le persone a cui vogliamo bene? Questi ragazzi e ragazze che hanno vissuto una piccola – o grande – parte della loro vita nelle famiglie italiane prima di spiccare il volo sono solo una goccia nel mare delle migrazioni. Forse non possono cambiare una narrazione prevalente che tutti conosciamo, ma se dovesse rimanere loro una sola idea di questa esperienza, a noi piacerebbe fosse questa: "Tu meritavi di essere accolto e cresciuto, amato, come lo meritano tutti i ragazzi nati in ogni parte del pianeta. Hai trovato persone che lo hanno fatto anche se non erano la famiglia da cui sei nato, ora che sei grande vai per il mondo e fai lo stesso con chi incontri".

A tutela della privacy delle persone coinvolte, i nomi di Paula, Marcello e Dante sono di fantasia. L'affido da loro raccontato qui è uno dei 51 avviati dal progetto Ohana in un anno e mezzo. Ohana è un progetto per favorire l’affido di minorenni migranti soli, finanziato dal FAMI, con il CNCA come capofila. È stato realizzato in sette regioni (Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Puglia e Sicilia). I risultati saranno presentati il 15 dicembre a Milano, insieme alle Linee metodologiche per l’affido dei minorenni migranti soli.

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