Welfare

Così l’economia riscopre i talenti di Verri e Beccaria

Furono gli illuministi italiani a intuire che il calcolo della ricchezza doveva misurarsi sul grado di soddisfazione. Allora furono sconfitti dalla scuola inglese (di Luigi Bruni).

di Redazione

L?economia nasce in Italia profondamente legata alla felicità: sia alla felicità individuale (più cara alla tradizione milanese), sia alla felicità pubblica (più tipica della scuola napoletana di Genovesi). Napoli e Milano erano due capitali dell?Illuminismo anche grazie alla alta qualità degli economisti, i quali non scelsero, diversamente da Smith, di occuparsi di ?ricchezza delle nazioni?, ma direttamente di felicità. Questa scelta metodologica fu però anche la causa della sconfitta della scuola italiana nei confronti di quella britannica. Le ragioni furono due. In primo luogo, all?alba della rivoluzione industriale l?Europa aveva essenzialmente bisogno di crescita economica per garantire a tutti il soddisfacimento dei bisogni primari. Inoltre, gli studi psicologici non esistevano ancora, i ?calcoli del piacere e della pena? di Beccaria e Verri non risultavano di particolare interesse agli economisti in cerca di diventare scienziati sociali. E perché, allora, oggi un Nobel arriva a centrare il suo progetto di ricerca su economia e felicità? Che cosa è cambiato negli ultimi anni? Diverse cose. Innanzitutto siamo passati, in molte parti del mondo, alla società post industriali o post fordista: quali conseguenze ha questo passaggio epocale nei confronti del rapporto tra economia e felicità? Diventa semplicemente più complicata la trasformazione della ricchezza in felicità, dei beni in ben-essere, e questo perché una volta soddisfatti i bisogni primari per condurre una vita decente, la ricchezza diventa benessere solo quando accompagnati da molti ingredienti. Solo un esempio. Il maggior reddito è normalmente associato ad un ritmo di lavoro più intenso, che ha molti effetti collaterali in altri ambiti della vita: in particolare si riduce il tempo da dedicare ai beni relazionali, cioè quei beni che derivano dai rapporti interpersonali genuini. E qui abbiamo un elemento importante per comprendere come mai la felicità interessa di nuovo agli economisti: in un mondo post industriale dove i beni più importanti per il benessere stanno diventando sempre più quelli relazionali, può accadere, ed accade, che l?aumento di reddito e ricchezza produca una diminuzione di felicità e di benessere. Un fatto, questo, troppo importante perché gli studiosi della ?ricchezza delle nazioni? non se ne occupino. In secondo lungo, la psicologia oggi è una scienza che possiede modelli e tecniche che riescono a dirci molto sul benessere reale delle persone, e sui fattori che più lo influenzano. Ed ecco quindi che alcuni economisti, in dialogo con gli psicologi, oggi si rendono sempre più conto che la ricchezza è certamente importante nelle scelte delle persone, ma ancora più importante è studiare come, se e sotto quali condizioni quella ricchezza soddisfa davvero i bisogni delle persone. Quando due anni fa organizzammo in Bicocca uno dei primi convegni internazionali sui Paradossi della felicità in economia, la comunità degli economisti italiani fu presa di sorpresa. Oggi non stupisce più tanto che un premio Nobel centri una sua lectio su Economia e felicità. La sensibilità dell?accademia e della cultura in generale sta mutando molto rapidamente, anche perché l?opinione pubblica percepisce che sotto i temi della felicità si nascondono dimensioni rilevanti e centrali per la vita quotidiana. Recentemente, gli strumenti concettuali che si stanno elaborando all?interno di questo filone di ricerca stanno poi diventando di speciale rilievo per una misura del benessere che sia meglio soddisfacente rispetto a quella standard offerta dal calcolo del Pil, ossia del prodotto o reddito aggregato. Come valutare questo ritorno della felicità in economia? Da una parte occorre riconoscere che c?è un modo di avvicinarsi alla felicità che richiama molto da vicino teorie edonistiche della felicità, in particolare quella di Bentham o di Epicuro: per molti economisti la felicità non si distingue dal piacere: siamo felici quando proviamo sensazioni piacevoli. Non c?è quindi un rapporto alla teoria aristotelico-tomista della felicità che la vede legata alle virtù civili, e che per questo presenta una dimensione etica o normativa tipica della tradizione italiana del Settecento (l?economia civile). Dall?altra parte, però, ci sono studiosi della felicità che cercano di portare l?attenzione sui beni relazionali, e quindi si ricollegano direttamente all?idea di pubblica felicità. In realtà se guardiamo da vicino i due approcci, quello più edonista e l?altro più ?eudaimonistico?, ci sono più punti di contatto che di divergenza. Non è quindi un caso che da esperimenti condotti da studiosi di ogni scuola emerge che le persone che risultano più felici sono coloro che vivono una vita civile attiva, che fanno volontariato e coltivano amicizie. Per questo la mia valutazione di questo ritorno di studi non può che essere molto positiva, perché è un forte segnale che l?economia sta riavvicinandosi alla sua prima vocazione: studiare la ricchezza ma come un mezzo per consentire a più persone possibile di svolgere una vita buona.

Luigi Bruni


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