Dipendenze

Così ho fotografato i fantasmi di Rogoredo

Dialogo con il fotografo Alessandro Didoni che, da oltre un anno, accompagna il gruppo di volontari che fornisce alle persone cibo, vestiti e prodotti per l’igiene. «C’è uno stigma per cui “tossico” è una categoria di persona. Ma non si nasce tossici. Chiunque può finire qui. È la vita di tutti i giorni che ti ci porta: questo mondo ovattato, la sensazione che non ci sia futuro, la disillusione, la ricerca di qualcosa»

di Alice Rimoldi

«Ho visto un uomo andare da uno spacciatore portando con sé il figlio in bicicletta, avrà avuto quattro o cinque anni. Ho conosciuto Paco che viene dal Senegal, è brillante ed ironico, ma è dipendente da anni. Ha cercato di disintossicarsi, non è riuscito ad uscirne e ora vive dietro la stazione di Rogoredo, periferia sud est di Milano, ma vorrebbe entrare in comunità. Ho conosciuto una donna, avrà avuto sessant’anni, mi ha raccontato che ha iniziato a sniffare eroina a quarant’anni. Rubava e si è ripulita in galera, ma poi appena uscita ha scoperto che una dose costava 2 euro ed è ricaduta. La sua vita è legata alla sostanza», racconta il fotografo Alessandro Didoni, che sta realizzando una raccolta di ritratti di chi frequenta la zona limitrofa al bosco di Rogoredo. Sarebbe il suo secondo libro fotografico dopo On your skin, anche se Didoni ha già pubblicato anche i due romanzi Trauma di Stato e Stella di periferia

Il fotografo Alessandro Didoni

Solo qualche chilometro separa il centro di Milano dalla stazione di Rogoredo. Eppure pare essere un mondo a parte, popolato da un’umanità distinta. Il suo nome evoca storie di spaccio, prostituzione e degrado. Ci si immagina siano tutti uguali coloro che vivono e frequentano questa zona, vicino al famigerato boschetto ormai bonificato. Dai ritratti scattati da Alessandro Didoni invece emerge la diversità di queste persone. Emarginati e classificati solo come tossici, sono uomini e donne diversi per età, nazionalità. Ognuno ha una storia alle spalle, non esiste “il” tossico. C’è chi ne vorrebbe uscire ma non riesce, giovani scappati di casa che ora vivono lì, anziani che si sentono ormai sconfitti, genitori che non conoscono i loro figli e figli con madri disperate che cercano di recuperarli.

«Conoscevo Rogoredo per le inchieste fatte dai media, tutte incentrate sullo spaccio e il consumo. Ma mi chiedevo chi fossero le persone dietro queste storie e questi numeri enormi. C’è uno stigma per cui “tossico” è una categoria di persona. Ma non si nasce tossici», racconta Alessandro Didoni. Proprio dall’idea di mostrare chi siano gli uomini e le donne che qui passano parte della loro vita, o forse della loro non-vita, nasce il progetto fotografico che Didoni intende pubblicare sotto forma di libro. 

I primi sopralluoghi li fa da solo, ma è grazie al Team Rogoredo dello psicologo ed educatore della Casa del Giovane di Pavia, Simone Feder che riesce ad avvicinarsi alle persone che frequentano la zona. Da agosto 2023 Didoni accompagna il gruppo di volontari che il mercoledì sera raggiunge la zona e fornisce cibo, vestiti e prodotti per l’igiene. Il presidio di Feder non offre solo beni di prima necessità, ma anche quel rapporto umano che qui manca: «i volontari ascoltano e chiacchierano con queste persone. Offrono senza chiedere nulla in cambio», mentre per chi è abituato a questo mondo tutto ha un prezzo, continua Didoni. 


I ritratti che scatta sono decontestualizzati, con sé porta un set e un fondale: «mostro solo il loro viso, al centro ci sono le persone». Alcuni si lasciano fotografare passivamente e poi si allontanano, «a volte spariscono e non posso poi dargli la foto che ho stampato». Altri parlano, ma non di sé, chiacchierano di altro. Altri ancora raccontano la propria storia: «Un ragazzo egiziano mi ha detto di essere venuto in Italia sognando di fare il calciatore, poi ha conosciuto una ragazza che si faceva di eroina e lo ha portato lì. È caduto nel vortice, è finita anche la relazione ma continuano ad incontrarsi in quest’ambiente. Mi ha raccontato che una volta ha visto un uomo morire di overdose e uno spacciatore coprirlo con un telo e continuare a vendere». 

Una volta dipendenti non esiste più nulla, gira tutto intorno alla sostanza. Alcuni spariscono per un po’ e poi ritornano. Altri non li si vede più, «chissà dove sono. Mi sembra siano di meno rispetto a prima, ma a volte vengono arrestati o cambiano piazza di spaccio».

Nei ritratti di Didoni si vedono visi scavati e occhi allucinati, con sguardi profondi. In alcune foto pare di intravedere qualcuno che si potrebbe incrociare in treno ogni giorno, persone comuni. «Chiunque può finire qui», dice il fotografo. «È la vita di tutti i giorni che ti ci porta: questo mondo ovattato, la sensazione che non ci sia futuro, la disillusione, la ricerca di qualcosa. All’inizio hai una botta di benessere, pensi di aver trovato la felicità che non trovi nel resto. Molti giovani qui cercano un modo per convivere con una realtà grigia, fatta di relazioni vuote e filtrate dai social». Gli adulti fuggono da matrimoni falliti e disoccupazione. «Dopo un po’ non sentono più quel benessere, sono solo in trappola e devono sfamare l’astinenza».

Con questa raccolta Alessandro Didoni vuole mostrare il volto nascosto di Rogoredo, “la più grande piazza di spaccio del nord Italia”, quei volti che nessuno guarda ma di cui tutti parlano da anni, quegli sguardi intensi che sembrano inchiodare lo spettatore. «Sto scrivendo anche dei testi, ma il libro sarà tutto improntato alle immagini, sono loro la parte centrale».

Passano gli anni e di Rogoredo si sente sempre parlare allo stesso modo, come di un’emergenza costante. «Bisogna cambiare prospettiva: investire sulla cultura e sui giovani prima» e sulla gestione del rischio poi. «Il proibizionismo non ha portato a nulla. La dipendenza dovrebbe essere gestita dal punto di vista sanitario invece che come un problema di pubblica sicurezza. Dopo ogni retata qui arriva comunque altra gente. Invece le persone andrebbero curate».

Credit foto Alessandro Didoni

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