Giornata contro il bullismo
Così, da vittima di bullismo, sono finito in carcere
La storia di G. racconta una catena del male che si ripete: prima vittima di bullismo, poi carnefice. Allontanato dalla scuola, ha cercato riscatto tra le persone sbagliate. Condannato per tortura, ha vissuto l’isolamento anche dietro le sbarre. Eppure, dice, io volevo solo un amico
Questa storia è stata pubblicata nel numero di dicembre di S-Catenati, il periodico scritto insieme ai detenuti della Casa circondariale di Matera. Un giornale che esiste solo su carta e arriva solo agli abbonati. S-Catenati è edito dall’associazione di volontariato penitenziario Disma. Ogni numero del periodico ospita un pezzo di fondo, sempre frutto di un incontro tra un volontario e un detenuto in una piccola stanza del carcere di Matera. Dagli appunti del volontario prende forma il testo, scritto in prima persona, pur essendo sempre una rielaborazione. La scelta stilistica è precisa: portare il lettore dentro quella stanza, accanto al volontario, per ascoltare senza filtri la storia di chi sta dall’altra parte del muro. Ora, potete entrare anche voi in quella stanza e ascoltare la risposta di G. alla sola domanda che gli ho posto e che, fino ad allora, nessuno gli aveva mai fatto: Perché l’hai fatto?
Quando qualcuno qui in carcere inizia a parlare della sua vita prima del carcere, la storia inizia sempre con la solita premessa: «Ero un ragazzo normale».
Ma com’è una vita normale? Che si prova? Lo vorrei chiedere ogni volta che sento questa frase. Sembrano così felici quelli nelle vite normali. Non fraintendermi, so benissimo cosa significhi nascere in una famiglia normale: la mia famiglia è il regalo più bello che la vita mi abbia fatto. Ma fuori – intendo – è un’altra cosa.
A scuola, ad esempio, io mi sono sempre sentito diverso. I discorsi dei miei compagni di classe, le loro battute, i doppi sensi, correvano troppo veloci, io cercavo di afferrarle, ma nella mia testa arrivava solo l’eco delle loro risate. E veloci come le loro parole, arrivavano gli schiaffi, gli sputi, gli spintoni. Mi trovavo per terra, sentivo male, ma non capivo, perché io?
Ogni mattina, ad ogni passo che facevo verso l’ingresso della scuola, la rabbia montava nella mia testa come in un vortice rumoroso. Sarebbe stato quello il giorno giusto, mi ripetevo ogni volta, sarei finalmente riuscito a reagire, ero pronto, avrei tirato fuori il carattere. Ma poi non ci riuscivo: ogni giorno così.
Finivo per terra. Poi di nuovo. E ancora. La rabbia nella testa faceva più male dei calci e degli schiaffi
Una volta ero sulle scale, era appena suonata la campanella e stavamo tutti correndo verso l’uscita, quando all’improvviso sentii arrivare forte uno schiaffo dietro la nuca. Lo sentirono tutti quello schiaffo. Ma i miei occhi erano già sugli occhi di mio nonno, che mi aspettava appena dietro la vetrata. Tutti scoppiarono a ridere, lui urlò qualcosa (forse), si avvicinò (non ricordo bene), nei miei occhi c’era solo la nebbia e, stampata come un tatuaggio, la delusione che riconobbi sulla faccia di mio nonno.
Seguirono infiniti colloqui, incontri con professori, dirigenti, psicologi. Loro parlavano, parlavano, parlavano. Mi dicevano cosa avrei dovuto fare, come avrei dovuto rispondere. Io annuivo, ma – tanto – già lo sapevo: cosa fare, come rispondere, era già tutto dettagliato nella mia testa. Dovevo farmi rispettare, farmi valere, reagire. Ma non ci riuscivo: ero io quello sbagliato.
Ora che i miei genitori avevano scoperto quello che fino ad allora ero riuscito a nascondere, a tenere schiacciato nella mia testa come in una pentola a pressione, anche nei loro occhi ero diventato diverso.
A scuola i calci, gli sputi, gli scherzi e le spinte aumentarono, invece di diminuire. Tanto che a un certo punto i professori non trovarono consiglio migliore per i miei genitori che invitarli a farmi lasciare la scuola. «Il lavoro in campagna lo aiuterà» dicevano. E così è stato. Avevo 16 anni.
Ho iniziato a dare una mano a papà, nell’azienda agricola che ha creato con il suo sudore e l’amore per la famiglia. Quel tipo di amore senza chiacchiere e distrazioni. Mi piaceva lavorare. E la sera, quando tornavo a casa, giocavo alla PlayStation. Prima da solo, poi ritrovai per caso online un vicino di casa più piccolo di me di qualche anno: ci davamo appuntamento per giocare a distanza. Qualche volta ci siamo visti anche fuori, abbiamo provato a passare del tempo insieme, ma non era bello come giocare online. La consolle rendeva tutto più vero e divertente: la voce, le risate, scivolavano lungo i fili della PlayStation più leggere. Normali.
Intanto ero arrivato a 18 anni e finalmente poteva avverarsi il desiderio che ogni mattino alleggeriva la fatica dei campi: l’acquisto di una macchina. Erano i miei soldi, li avevo guadagnati io. La mia prima auto arrivò puntuale sotto casa, era azzurra, come il cielo che raccoglieva all’alba i miei pensieri ogni mattina. L’entusiasmo con cui l’accolsi convinse mamma e papà che finalmente avrei avuto uno stimolo in più per uscire di casa. A farmi degli amici veri. Li avevo già delusi tante volte, ma ora era diverso, il rumore del motore rispondeva ad ogni mio comando e mi faceva credere davvero che questa volta sarebbe stato diverso: sarei riuscito a prendere in mano le redini della mia vita.
Così avvenne. O almeno questo è quello che credetti.
Iniziai a rientrare tardi la sera a casa, ad avere una comitiva, sì ma non una qualunque, fatta di sfigati come me, al contrario! Ero con i più ganzi del paese. Non riuscivo a crederci. Io ero il più grande del gruppo, loro più piccoli di due, tre anni. Erano sempre allegri, felici, sapevano divertirsi, io continuavo a sentirmi diverso, a volte mi prendevano in giro, ma poi tornavano subito a farmi sentire importante. Mi incoraggiavano e mi spingevano a superare le mie paure, i miei limiti. E io li accompagnavo ovunque mi chiedessero di andare. Ero l’unico ad avere la macchina.
Una delle tappe obbligate quando uscivamo la sera era la casa del Pazzo del paese: era questo il nome con cui tutti lo conoscevamo.
Già quando andavo a catechismo da bambino, nella chiesa vicino casa sua, ricordo che alcuni ragazzi più grandi si divertivano a suonare il suo campanello di casa, per vederlo uscire arrabbiato. Il Pazzo fingeva di essere armato e con la sua voce colpiva mortalmente i disturbatori. E questi, divertiti, ritornavano, come in una giostra senza biglietto d’ingresso.
Inizialmente andavamo dal Pazzo con lo stesso spirito, per farci due risate. Poi piano piano il campanello divenne troppo poco, arrivò il primo calcio alla porta e anche io ruppi una finestra allo stesso modo: ricordo le sue urla impaurite. Era notte. Giorno dopo giorno lo scherzo divenne un incubo, come in una spirale che ogni volta legittimava il passo successivo. E quello dopo ancora. Entrammo a casa sua più volte: schiaffi, calci, bastonate.
Mi chiamavano cacasotto, perché non avevo il coraggio di colpire il Pazzo. Ma avevo il telefono con la fotocamera migliore e questo bastò a ritagliarmi il ruolo che mi riusciva meglio. Filmavo tutto, poi condividevo i video su whatsapp e l’adrenalina di quei momenti continuava a pompare eccitazione e risate anche dopo ore. Ogni iniezione in differita di questa strana droga virtuale pretendeva dosi sempre maggiori. E noi, ciechi, gli obbedivamo.
Ridevamo, ci divertivamo, ma per me era diverso: nello schermo di quel telefono non c’era il Pazzo, c’ero io. I calci, gli sputi che rivedevo nei video, non erano diretti al Pazzo, ma al fantasma del mio futuro.
In quei video il Pazzo ero io, sarei diventato certamente come lui, io, fra trenta, quarant’anni. Se non fosse stato per l’aiuto dei miei nuovi amici. Rivedevo quei video in modo compulsivo: ad ogni sputo quel fantasma si allontanava dalla mia vita, ad ogni calcio si allontanava la possibilità che io potessi diventare come lui. Nel mio schermo vedevo arretrare impotente il futuro che mi spaventava più di ogni cosa. Stavamo vincendo noi. Era come nelle partite alla PlayStation, bisognava annientare il nemico per evitare che lui togliesse la vita a noi.
Spaventato a morte da questi raid notturni, il Pazzo del paese smise di uscire di casa e di mangiare. Finché i vicini capirono che forse questa volta qualcuno stava oltrepassando il segno. Iniziarono a segnalare le incursioni alle forze dell’ordine, ma le bravate a case del Pazzo non erano una novità, così non c’era mai una volante disponibile. Quando finalmente le volanti arrivarono lo trovarono legato ad una sedia, denutrito, sofferente. Accompagnato in ospedale morì dopo qualche giorno.
Dopo un lungo processo i giudici verificarono l’assenza di una causalità diretta tra la sua morte e la nostra condotta. Il decesso in ospedale arrivò per una malattia indipendente dallo stato di terrore e soggezione a cui lo costrinse la nostra malvagità inaudita, senza scuse. Ma questo non bastò a placare la sete morbosa di dettagli e curiosità di tutta Italia: giornalisti, programmi televisivi, Barbara D’Urso, Chi l’ha visto, tutti parlavano della baby gang che aveva portato alla morte un pover’uomo.
In seguito una compagnia teatrale scelse la nostra storia per mettere in piedi uno spettacolo, e raccontare come l’uso distorto dei video condivisi sui social network potesse generare dei mostri.
Quando ci trovammo in commissariato con gli altri, tutti indagati, mi riconobbero a malapena. Parlavano a bassa voce, si cercavano con lo sguardo, loro. Io, senza la mia macchina, non servivo più a nulla. Stava per iniziare la pagina più brutta di una vita che non mi era mai piaciuta, il peso di un crimine orribile, la vergogna e il dolore per quello che avevamo fatto. Eppure, non so come, in quel momento non riuscivo a non pensare che per quei ragazzetti davanti a me, io non ero altro che un mezzo di trasporto da sfruttare. Me ne rendevo conto solo in quel momento. Avevo 18 anni.
Sono stato condannato a quasi 9 anni di reclusione. Pensavo di aver toccato il fondo, ma perché ancora non conoscevo quello che mi attendeva in carcere. Il carcere è solo un pezzo di mondo. Solo che il mondo, in carcere, moltiplica per dieci i suoi istinti. Dai detenuti finanche a qualche agente. Oggi li capisco, non lo dico per accusare qualcuno, solo per raccontarti quello che ho imparato stando qui.
Prova a metterti nei panni di un agente penitenziario, una persona che lavora con fatica ogni giorno per mantenersi dalla parte della giustizia. Immagina di essere inseguito per settimane in tv dalla descrizione puntuale di un mostro, il peggiore di tutti i mostri, uno di quelli che mangiano gli indifesi. Il giorno dopo per puro caso ti viene affidato in una camionetta proprio quel mostro. Prova, ora, a sentire gli insulti che ho ricevuto.
Più mi vedevano impaurito, annichilito dal dolore, frastornato da urla e ordini che non riuscivo a capire, più forte era la loro voce contro di me. Forse perché quando hai un mostro così vicino a te, soprattutto se appare piccolo e impaurito (come io apparivo) rischi di accorgerti di somigliargli, che in fondo la tua storia non è poi così diversa dalla sua. Che nel grande gioco di ruolo che è la vita le parti assegnate all’inizio della partita, possono cambiare. E allora senti il bisogno di allontanarlo, di urlargli contro, di insultarlo, per dire a te stesso e a chi ti guarda, che non è vero che siete simili. Il diverso va allontanato perché toglie sicurezza al nostro posto dalla parte dei buoni. Me la sono cercata, in fondo, non me la prendo con nessuno, perché sulla mia pelle ho misurato cosa vuol dire stare da entrambe le parti.
Anche in carcere si vede la televisione. E anche gli altri detenuti mi vedevano come un cancro contagioso, da estirpare, nessuno voleva sentirmi vicino, simile. Ancora una volta tutti sentivano il bisogno di dirmi quanto fossi diverso da loro. In sezione un detenuto arrivò a tirar fuori dal suo calzino una spilla, o forse una lametta, non so dirti con precisione. Per rinforzare quello che io evidentemente non riuscivo a capire: qua fai troppo schifo, mi disse, inutile che cambi cella ogni giorno, te ne devi andare proprio da questa città, se no esci con i piedi davanti. Ma io non sapevo far altro che piangere.
Forse qualcuno mi ha voluto bene e ha allertato il magistrato di sorveglianza, così sono stato trasferito a Matera. Qui è diverso. Sto meglio ora. Non passo più le giornate a piangere, ho riletto la mia vita con l’aiuto di tanti esperti, di fra Gianparide, dei volontari.
Ah! Qui sono tornato a scuola, com’è bello andare a scuola! Ora non vedo l’ora di diplomarmi.
Sono entrato in carcere che ero come un bambino, oggi mi sento uomo. Ho 24 anni. Eppure, ho ancora paura, ma una paura diversa. Ho fatto tanti passi avanti e ora ho paura di crollare, perdere la consapevolezza che ho maturato. Ora sono pronto, il carcere mi ha dato tanto, ma ho ancora troppo tempo da trascorrere qui dentro.
L’altro giorno ero sul punto di crollare, la speranza qui è faticosa, soprattutto quando pensi alla vita fuori. Pensavo che quando potrò uscire sarò troppo grande per trovare un amico, nessuno più vorrà avvicinarsi a me. Il giorno dopo è arrivato il momento delle chiamate a casa, ho sentito mamma, mi ha detto che si è rifatto vivo con una telefonata quel mio amico della PlayStation, te lo ricordi? Ha detto che lui mi pensa e ha chiesto a mia madre di portarmi i suoi saluti.
Questa è la cosa più bella che sia accaduta nella mia vita. Ho fatto cose terribili, che mi vergogno anche solo a ricordare, ma la verità, non so come dirtelo Luca, è che io volevo soltanto un amico.
La foto in apertura immortala un momento di condivisione tra volontari di Disma odv e detenuti in permesso all’esterno del carcere. Uno degli obiettivi dell’associazione è favorire il reinserimento sociale dei detenuti, offrendo loro l’opportunità di conoscere il territorio e la città che li ospita.
Vuoi accedere all'archivio di VITA?
Con un abbonamento annuale potrai sfogliare più di 50 numeri del nostro magazine, da gennaio 2020 ad oggi: ogni numero una storia sempre attuale. Oltre a tutti i contenuti extra come le newsletter tematiche, i podcast, le infografiche e gli approfondimenti.