Economia

Così ci siamo mangiati il futuro

di Giuseppe Frangi

E&F: A quale data farebbe risalire l’inizio di questo processo?
Revelli: Alla fine degli anni 70 quando Paul Volker, che guidava la Fed, decise che il problema non era più la disoccupazione ma l’inflazione. Disse che bisognava bloccare la dinamica salariale e fermare le politiche keynesiane. E ha sostituito queste ultime con la droga finanziaria.
E&F: Oggi sembra che tutti facciano una precipitosa marcia indietro. Gli Stati recuperano il loro posto alla tolda di comando. Come giudica questa svolta?
Revelli: Per un anno e in particolare nell’ultimo mese abbiamo assistito alla catastrofe della politica. Un’accelerazione parossistica che è culminata nel gesto di Paulson che si è inginocchiato davanti a Nancy Pelosi implorandole l’approvazione delle misure anticrisi da parte del Congresso: era la resa dell’esecutivo al potere legislativo. Il giorno dopo Wall Street ha continuato a crollare e così pure dopo l’approvazione del piano da 850 miliardi di dollari. Lo stesso lo abbiamo visto dopo il vertice dei quattro principali Paesi europei, la cui non decisione ha prodotto la settimana più nera della storia economica e finanziaria occidentale. Poi abbiamo visto nel giro di due giorni l’uomo più potente del mondo, Bush, andare alla riunione dei venti Paesi a chiedere scusa. Ed è stato un altro spettacolo impressionante di resa. Ma sul terreno restano ancora troppe incognite.
E&F: Quali?
Revelli: Quelle relative all’entità del buco che bisogna riempire. Gli Stati Uniti hanno stanziato 700 miliardi di dollari per acquistare i titoli spazzatura, ma nessuno sa a quanto ammontano, i calcoli viaggiano dai 1.500 ai 15mila miliardi di dollari. È una forbice che la dice lunga su quanto il sistema sia fuori controllo. È certo che pur salvando il sistema finanziario i costi saranno talmente alti da cambiare la natura degli Stati e da produrre inevitabilmente una recessione dell’economia non più monetaria e finanziaria, ma reale.
E&F: La recessione sembra uno scenario ineluttabile. Sarà la forca caudina attraverso la quale saremo costretti a pensare un nuovo modello di sviluppo o prevarrà il panico?
Revelli: Finora abbiamo assistito alla crisi economica come abbiamo assistito alla guerra globale. Assorbendone tutti i costi psicologici, ma non sperimentando, almeno nei Paesi più ricchi, gli effetti reali. L’abbiamo vista per televisione. La fascia di popolazione che ha investito in azioni si è impoverita ma è una parte piccola della società e non sono certo quelli a ridosso dalla soglia di povertà. Per il momento è vero che «Nessuno ha perso un euro». Quando si esce dal grande specchio deformante di Wall Street, degli indici del Mibtel, e si fa il conto dei costi della recessione allora si comincia a ragionare in numero di posti di lavoro perduti. Se il salvataggio delle banche ha i costi che già ora si prospettano, ci saranno problemi. La spesa pubblica si orienterà in altre direzioni. Cambierà davvero tutto: è come se la guerra vista in televisione ad un certo punto arrivasse sotto casa. Negli Stati Uniti si cominciano a vedere le tendopoli di chi ha avuto la casa sequestrata, sono decine di migliaia di persone e il loro numero cresce. L’indice di disoccupazione non cresce del 10% in un giorno, non è paragonabile all’indice di Borsa. Però mese dopo mese questa erosione delle nostre vite quotidiane andrà avanti.
E&F: Terapie possibili?
Revelli: Ho l’impressione che non ce ne siano. Keynes è stato messo fuori uso dal processo di globalizzazione: gli Stati non hanno gli strumenti per risolvere la crisi e se per aumentare la spesa pubblica dovessero stampare moneta assisteremmo a forme d’inflazione dirompente. Vedremo crescere una povertà in assenza di terapie. E sono molto preoccupato perché questi processi d’impoverimento nel clima culturale che si è creato non determinano una spinta spontanea alla solidarietà.


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