Non lo chiamano più nemmeno welfare aziendale, etichetta riduttiva e dal sapore paternalistico. Oggi si preferisce “welfare privato” o “secondo welfare” ed è rappresentato da tutte quelle iniziative, sempre più spesso oggetto di accordi e contrattazione con i livelli territoriali dei sindacati, che mirano a sostenere il reddito, i risparmi e il potere d’acquisto dei dipendenti con forme di remunerazione non monetaria. Si va dalla vasta gamma delle politiche di conciliazione lavoro-famiglia (flessibilità contrattuale e d’orario, servizi all’infanzia, apertura di asili nido e micronidi) alle convenzioni con vari esercizi su servizi e prodotti, ai fondi sanitari privati, alla scontistica, ai buoni formazione, fino a piccoli ma graditissimi benefit come il maggiordomo interno che sbriga le pratiche amministrative, la colazione gratis il primo lunedì del mese o la palestra nella sede aziendale. I “fortunati” che godono di questo tipo di benefici – a dire il vero già da alcuni anni – appartengono soprattutto alle grandi sigle dell’industria, ad alcune banche e alle multinazionali con sede in Italia: Tetra Pak, Luxottica, Tod’s, Mattel, Adecco, Intesa Sanpaolo, Edison. Ma la linea di confine si sta spostando.
I tagli in cifre
L’onda lunga della crisi si è abbattuta sul mercato ma anche sui conti dello Stato: ci sono porzioni di welfare, nel nostro Paese, che sono e resteranno sempre più gravemente scoperte. Il taglio delle risorse sui fondi statali di carattere sociale si commenta da solo: il Fondo politiche sociali, al netto delle spese per i contributi soggettivi obbligatori, passa dagli attuali 273,9 milioni di euro a 70 nel 2012 e 44,6 milioni nel 2013. Il Fondo per la non autosufficienza, che fino al 2010 ha avuto una dotazione di 400 milioni, è stato cancellato (così come il Fondo per i servizi all’infanzia e il Fondo per l’inclusione degli immigrati). Sopravvivono, anche se con dotazioni ridotte all’osso, il Fondo per l’infanzia e l’adolescenza (40 milioni fino al 2013) e quello per le Pari opportunità (17,2 milioni fino al 2013). In area sanitaria la prospettiva non è migliore. Come ha denunciato Cittadinanzattiva in un recente rapporto, nemmeno i Lea (i Livelli essenziali di assistenza) sono garantiti uniformemente su tutto il territorio nazionale: solo otto Regioni, tutte del Centro-Nord, sono state in grado di coprire le spese per l’effettiva erogazione. «Dopo l’applicazione del decreto legislativo 68 del 2011 in materia di autonomia di entrata delle Regioni e di determinazione degli standard in ambito sanitario, c’è più di qualche preoccupazione», si legge nel rapporto dell’associazione. In questo scenario il mondo dell’impresa cerca soluzioni capaci di conciliare i problemi di budget legati alla crisi, che impediscono aumenti salariali, e le richieste sempre più pressanti di una fetta di popolazione attiva (gli occupati nel Paese sono in totale 23 milioni) che si dibatte nella morsa della diminuzione del potere d’acquisto, di esigenze familiari sempre più pressanti e legate al progressivo invecchiamento demografico, dell’arretramento della “copertura” pubblica in tanti servizi, della scomparsa di aiuti amicali e di una rete sociale capace di ammortizzare i bisogni.
Da aziendale a territoriale
È decisamente un segno dei tempi l’iniziativa di Luxottica, azienda che rappresenta un modello nelle prassi di welfare, che da due anni distribuisce con successo un “carrello della spesa” gratuito, del valore di 110 euro, a tutti i suoi dipendenti. Il benefit aziendale che arriva fino alla prima necessità. Ma chi può declinare, e fino a dove può spostarsi, il confine del welfare privato? «La crisi nei servizi pubblici ha riaperto la porta al welfare aziendale, inventato a fine Ottocento dai primi industriali illuminati e poi superato dall’avvento del Welfare State», commenta Stefano Zamagni, presidente dell’Agenzia per il terzo settore. «Tra i due esiste una differenza sostanziale: il primo è particolare, il secondo universale. Il welfare aziendale, per sua natura, tende a minare la coesione sociale, perciò occorre che faccia un salto di qualità: deve diventare territoriale. Le imprese che operano su uno stesso territorio devono mettersi assieme e, in collaborazione con la grande risorsa del non profit, che può mettere in campo competenze e reti già consolidate, fornire ai cittadini quei servizi che il pubblico non riesce più a realizzare». Anche per il presidente Acli, Andrea Olivero, lo sviluppo
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