In Italia esiste ancora la società civile? Vi viene in mente un argomento “caldo”, un tema, una battaglia che entra nel dibattito pubblico grazie alle voci che giungono dal basso? Perchè le campagne e le denunce portate avanti dalla società civile lasciano poco segno? Perché si contano sulle dita di una mano quelle realtà che riescono a sollevare questioni e a costringere la politica e i media a seguirle? Forse azzardo un po’, ma l’unica personalità della società civile che riesce a far sentire pienamente la voce propria e del suo mondo è rimasto Don Luigi Ciotti. Nelle grancasse mediatiche si sente poco o altro. Certo, siamo in un momento di passaggio, anche politico. Ma stridono alcuni silenzi, anche se ci sono dei lampi come la campagna di Vita sul gioco d’azzardo e non solo.
La domanda che pongo è la seguente: perchè in un’Italia sempre più disuguale e decadente sembra che non si alzino voci forti e chiare? È solo un problema di comunicazione, nel senso che alcuni temi e alcune realtà vengono ignorate dai media, o la forza dal basso è debole e con poche armi? Per iniziare a rispondere forse dobbiamo guardare proprio in alto, non in basso.
La campagna elettorale che è iniziata ha dimostrato una cosa: che la società civile è sempre di moda, anzi, la politica progressista trova spazio anche a nomi credibili e di prestigio, con storie di impegno alle spalle, e non solo politici di professione.
Anche perchè ha bisogno di rifarsi una credibilità. Sono operazioni di immagine o di sostanza? Un dato è certo: c’è sempre qualcuno che dall’alto decide e promuove, c’è sempre una ragione politica più alta. Certo, molti candidati della società civile hanno un alto grado di gradimento nel mondo sociale e del terzo settore, ma il metodo di selezione è sempre e solo uno: la cooptazione nelle sfere alte da parte di chi tiene in mano le decisioni dei partiti e dei movimenti. Questa può, apparente paradosso, anche essere una buona notizia: in tal modo sono stati candidati per le prossime elezioni fior di bei nomi che sicuramente avvicineranno, o tenteranno di farlo, le istanze sociali e civili e del terzo settore al Palazzo. E altri sono stati in procinto di esserlo. Così come le varie elezioni regionali stanno sfornando altri bei nomi, puliti, credibili, onesti e competenti.
Allora dov’è il problema? Credo che il problema sia sostanzialmente uno: risiede nelle premesse e nelle conseguenze dell’ormai dichiarata sudditanza della società civile italiana alla politica dei Palazzi. Sudditanza nei seguenti termini: per esistere dobbiamo essere riconosciuti dal protagonista assoluto della vita civile italiana, i partiti politici. O meglio, dai singoli leader che all’interno dei partiti dettano l’agenda del discorso pubblico. Ma va bene anche un parlamentare.
Fra i responsabili di questa deriva, vi è l’attuale legge elettorale, vera cartina di tornasole, a mio parere, del fallimento di un’intera classe politica. Si decide tutto in alto. Sia chiaro che non sto alimentando l’antipolitica: ho visto coi miei occhi in questi anni diversi parlamentari farsi in quattro per portare nelle istituzioni la voce della società civile. Spesso dietro le quinte e senza volersi fare pubblicità. Queste persone hanno salvato quel poco di fiducia che è rimasta nella politica. È loro dovere, direte. Si, ma oggi niente è scontato.
La questione che si pone dopo questo lungo preambolo è una: perchè se la politica partitica oggi è screditata, continua a dettare l’agenda del Paese almeno per quanto riguarda il dibattito pubblico? Perchè all’interno della società civile, e in particolare nel terzo settore, esiste un timore reverenziale e una disponibilità totale a venire incontro alle esigenze di una politica che dovrebbe essere invece un interlocutore con cui aprire anche dei fronti di conflitto? Perchè all’interno delle Ong, delle cooperative sociali, delle organizzazioni di volontariato, delle associazioni quando chiama un assessore, un parlamentare, un sottosegretario, un sindaco sembra di esistere di più di quanto si esisteva prima che chiamasse?
Le piste di rilfessione sarebbero troppe. Fra i punti centrali ne cito uno: sono troppo deboli i meccanismi di partecipazione della società civile, in tutte le sue forme, alle decisioni pubbliche di governo o amministrazione di territori. Il fulcro delle decisioni è risucchiato verso l’alto e c’è sempre una responsabilità più alta (che sia l’Europa, il governo, la Regione, la Legge) inamovibile, ci sono sempre decisioni già prese, soldi già impegnati, spazi già occupati e che non possono essere messi in discussione. Non governa nemmeno chi governa ed è uno dei motivi per cui la società civile è tornata di moda. Per allargare lo spazio occupato dalla grande illusione di poter influire sulla realtà, di poter cambiare i meccanismi di una società che crea iniquità e corto circuiti; in cui, novelli Conti Ugolini, i padri si mangiano le possibilità dei figli. Una società che assiste inerme al suo decadimento senza avere la forza né le risorse culturali e umane per arrestarlo.
Eppure gli anticorpi esistono e sono proprio nella società civile.
Oggi Franco Bomprezzi, salutando la probabile nomina di Pietro Barbieri a portavoce del Forum del Terzo Settore, ha in quattro righe dettato un’agenda che basterebbe a tenere impegnato il terzo settore italiano per i prossimi 5 anni di legislatura su un orizzonte molto più amplio rispetto alle singole rivendicazioni settoriali: “interrogarsi -ha scritto Bomprezzi- ad esempio sulla sostenibilità ambientale di molte scelte economiche, sul modello di sviluppo dei servizi sociali, sull’impatto per le giovani generazioni di nuovi (o vecchi) modelli di impresa e di lavoro, sui diritti negati, sulla discriminazione che non riguarda solo le minoranze, ma ci interroga rispetto al pensiero dominante, che ci ha portati a questo punto”.
Le idee ci sono, qualcuno in queste settimane sta anche cercando di farle valere e vedere ad una classe politica che uscirà dalle prossime elezioni senz’altro rinnovata con molti problemi di governabilità, ma anche con molte possibilità di migliorare le istituzioni. Ci vuole poco tra l’altro.
Vi chiederete allora perchè in questo post alterno pessimismo ad ottimismo: la ragione sta nella possibilità che oggi ha la società civile italiana -e al suo interno il terzo settore italiano- di prendere in mano il discorso pubblico, unirsi, confrontarsi, mostrarsi e mostrare che un modo diverso di convivere nella nostra malata società è possibile. Occupando, perchè no, anche spazi di mercato, ma facendo valere in prima istanza i suoi valori nella pratica quotidiana. La politica in questa fase ha il merito di aver squarciato il velo su un mondo.
E se sono talvolta i migliori quelli che se ne vanno dal terzo settore per entrare in politica, oltre a migliorare, si spera, le istituzioni, lasciano anche uno spazio per sperimentare rinnovate leadership, per dare fiducia a giovani teste che hanno in mente nuove visioni della società. Ce ne sono, e molte. La stragrande maggioranza delle persone, è ovvio, rimane in basso, a confrontarsi con la quotidianità.
A loro spetta un compito: accogliere la stagione che viene come una sfida di rinnovamento. Hanno la possibilità di fare in modo che il cambiamento non arrivi dall’alto, ma dal basso. Avranno canali aperti a tutti i livelli istituzionali, li usino bene. Ma guardino soprattutto in basso e a loro stessi. Tentino di essere migliori. Si lascino sorprendere da cose mai fatte. Le difficoltà sono molte, le risorse poche. Occorre però ritrovare l’entusiasmo, cambiare i modi di stare insieme e in rete, di fissare obiettivi e strumenti di lavoro. E serve lasciare spazio alla voce dei giovani che hanno forza e voglia di giocarsi le sfide del nostro tempo. C’è solo da guadagnare. E la prossima volta, invece che cooptati solo i leader, il terzo settore vedrà cooptate soprattutto idee, proposte e competenze. E sarà una grande soddisfazione.
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