Cultura

Cosa insegna il populismo al Terzo settore

«Il populismo ci mostra l'attenzione che dovremmo avere per quelle figure, quegli spazi, quelle paure e quelle necessità cadute fuori dal nostro sguardo». L'intervento del politologo Marco Revelli che trovate, insieme a tanti altri, anche sul numero del magazine di novembre intitolato "Serve ancora il Terzo settore?"

di Marco Revelli

Il populismo ci impartisce una lezione. La impartisce a tutti, ma al Terzo settore in particolare. È una lezione di economia morale e, al contempo, di geografia morale. Di economia, perché il populismo rivela la quantità di spazio sociale che è stato abbandonato a se stesso. Di geografia morale, perché lo stesso populismo ci offre la mappa degli spazi di quell'abbandono. Il populismo ci insegna l'attenzione che dovremmo avere per quelle figure, quegli spazi, quelle paure e quelle necessità cadute fuori dallo sguardo delle élite e, in molti casi, diciamocelo francamente, fuori dal nostro sguardo. Il non profit deve uscire dall'angolo, non stare sulla difensiva. Deve tornare a concepirsi come forza attiva che può e sa costruire legame nella terra dell'abbandono.

La politica senza politica

Stiamo vivendo in un tempo di politica senza politica. Un tempo in cui una politica strutturata in processi istituzionali, in forme di governo, in sistemi di relazioni internazionali non riesce più a rispondere alle domande che i cittadini le pongono. E non riesce più a far fronte ai bisogni sentiti come cruciali da quei cittadini. È in questo contesto che si diffonde quello che, con un termine troppo generico, è chiamato “populismo”.

Il populismo non è affatto l'antipolitica, come circa dieci anni fa era ancora definito. Ma più che una definizione pareva un esorcismo per allontanare da sé forme di agire politico che si sottraevano alla logica dei partiti tradizionali. Purtroppo è oramai vero il contrario: il populismo è diventato la forma prima della politica nell'epoca della sua crisi. Il populismo è la politica nell'epoca dello svuotamento della politica.

Il populismo diviene, allora, la forma che assume il vuoto politico. Il populismo è l'espressione di una malattia della politica. Più nello specifico: è l'espressione di una malattia della democrazia.

Se agli inizi del Novecento il populismo era segno di una democrazia che non riusciva ancora a rappresentare tutto il popolo, oggi è segno di una democrazia che non riesce più a rappresentare un popolo che fino a qualche decennio fa si sentiva ed era rappresentato. Da qui nasce il diffuso risentimento, quella tonalità umorale che sfocia nell'indignazione fine a se stessa e che, sempre più, colpisce i nostri mondi (l'odio per le cooperative, per i centri di accoglienza, per chiunque faccia inclusione attiva…).

Il populismo è stato definito «l'ospite indesiderato». Pensiamo a un ricevimento elegante, fra belle élites: il populismo è un ospite che stona. Beve troppo, è mal vestito, importuna le signore, ma a un certo punto si mette a dire delle cose che tragicamente sono, in qualche misura, vere. Per esempio che gli attuali sistemi democratici e le attuali economie sociali non rappresentano più e non rispondono più ai bisogni di parti consistenti dei loro cittadini.

Ovviamente il populismo è polimorfo, è mutante, si insinua in ogni realtà. Nel vuoto le forme sono cangianti, ma una tendenza è riscontrabile: i populismi si radicalizzano verso destra.

Questa radicalizzazione verso destra tocca temi che prima erano valorizzati dal Terzo settore! Immigrazione, periferie, inclusione lavorativa, i margini… Margini esistenziali, di senso non solo di povertà materiale. Il populismo non offre risposte, ma coglie l'esplosione della domanda. La coglie proprio là dove le cose si fanno complesse e le semplifica, offre un appiglio e una chiave di lettura molto efficace: “noi-loro”, “amico-nemico”. Fornisce un senso – malato, ma pur sempre un senso.

Ne vuoto del sociale

Il populismo si radica nelle fasce del disagio. Non necessariamente nelle fasce della povertà, ma in quelle della deprivazione, tra tutti coloro che avvertono, a torto o a ragione, di essersi impoveriti non esclusivamente in termini di reddito, ma in termini di status sociale, di riconoscimento sociale e pubblico, in termini di attenzione da parte degli altri. Il populismo si radica tra coloro che sentono di aver perso l'orgoglio di appartenere a qualcosa. Il populismo si radica in quelle parti di società che si sentono non più capaci di occupare il centro, ma al contempo sentono di essere sospinte verso i margini.

Il populismo trasforma quei margini in estremi. Il populismo spinge verso estremi morali e dell'immaginario. Offre una narrazione a coloro che sono rimasti senza racconto di sé. Per questa ragione parlo di vuoto. Ed è un vuoto che riguarda anche noi, il Terzo settore, l'economia sociale, quella civile.

Mi si dirà: “ma ci siamo, noi stiamo lì, lavoriamo sul terreno”. Certo, è vero. Ma è anche vero che se siamo percepiti unicamente come portatori di servizi, non incidiamo in questo processo. Questo è un processo di rappresentazione e di valorizzazione. Con una parola antica direi: un processo di senso e di comunità. Nella misura in cui sapremo rispondere a questa domanda di senso e comunità, sapremo essere un argine al populismo

I soggetti del Terzo settore devono ridiventare attrattivi per evitare questa spinta verso l'estremo favorita anche dalle passioni tristi del nostro tempo. La sfida che ci si presenta per i prossimi anni è tutta qui: riempire il vuoto, evitando che sia il populismo a continuare a farlo.

Naturalmente, il gioco del populismo è più facile perché si radica in questi strati di disagio materiale e morale non per offrire soluzioni, ma per capitalizzare un consenso. Il Terzo settore, per incidere davvero, non deve invece inseguire il populismo sul terreno del consenso. Avrebbe già perso! Deve offrire nuove risposte e soluzioni a problemi che sono, lo abbiamo detto, di partecipazione, di condivisione, di percezione di sé e degli altri da sé. Di legame e di senso. Il suo compito è gravoso, ma solo accettando in pieno la sfida e chiarendo a noi stessi gli sbagli che abbiamo fatto potremo presto combattere ad armi pari. Non basta contrapporre slogan “buoni” a slogan disumani. Il populismo è riuscito a capitalizzare una fortissima energia trasformandola in rabbia e cattiveria. Ma il tema rimane: perché non siamo stati capaci di canalizzare noi quell'energia verso altre forme?

Ricostruire oltre le macerie del populismo

Fino a qualche anno fa pensavamo fosse possibile immaginare un uso dello stile populista per buone cause. Oggi, l'impressione è che tutto questo sia impossibile. Soprattutto perché i populismi si stanno ad uno ad uno risolvendo in esperienze all'insegna del disumano. Ciò che accade o è accaduto in Ungheria, Austria, Olanda, Polonia e, purtroppo, anche in Italia ha cambiato tutto. È molto più difficile pensare di potersi servire di uno stile populista – col suo linguaggio diretto, che salti filtri e mediazioni – per fare ricompattare il sociale. Al contrario, ciò che dobbiamo imparare non è lo stile, ma la lezione del populismo. Una lezione severa che abbiamo subito e che tutto il mondo del Terzo settore ha preso in pieno volto come uno schiaffo tremendo.

Questa è la lezione del populismo al nostro mondo: non possiamo permetterci di abbandonare il sociale, perché altrimenti il sociale degenera, produce mostri e ci si rivolta contro. Quanti spazi abbiamo abbandonato? Quanto terreno abbiamo ceduto? Quante parole ci siamo lasciati rubare? Quanto abbiamo inseguito la politica partitica nel suo vuoto di senso, di forme, di idealità? Il populismo ha saputo prendere il timone di un'energia che, fino a qualche decennio fa, era l'entusiasmo che animava il sociale. Non si è insediato altrove, ma proprio tra noi, come un parassita. Là dove i “buoni”, i portatori di positività hanno lavorato per tessere società e costruire legame il populismo si è insediato. Lo ha fatto alla fine di un lungo processo di disgregazione di legame.

Il populismo si nutre infatti delle passioni che si originano dai processi disgregativi. In questo senso è ovvio che il populismo accelera quei processi, ma lo fa presentandosi alle vittime nella figura del loro salvatore. Un salvatore che non redime, ma incolpa. Che non libera, ma lega. Che non unisce, ma indica il capro espiatorio.

Arroccarsi al Terzo settore non serve più. La forza del populismo sta nella debolezza degli altri e si alimenta del deficit della crisi altrui. In politica si alimenta della crisi del modello delle socialdemocrazie. Nel sociale, si alimenta della crisi dell'intermediazione che il Terzo settore rappresentava. Se non siamo più la società di mezzo, perché non c'è più società che tenga, l'unica mediazione possibile è davvero una corsa infinita e folle dentro il burrone? Cosa che accadrà se il nostro mondo non saprà arrestare questa corsa? Per farlo deve dotarsi di strumenti nuovi, ma anche della vecchia, sana critica. E dell'autocritica. Per esempio chiedendosi: quale responsabilità hanno i samaritani, nell'epoca in cui i buoni samaritani vengono messi sul banco degli imputati?

Questo ci dobbiamo chiedere come operatori di quel mondo che stava nel mezzo fra una politica che non c'è più e un disagio che si sta sempre più si mutando in rancore. Oggi non siamo più nel mezzo, ma all'angolo. Dobbiamo uscire dalla logica del linciaggio. Ma anche dalla logica della vittima. Per immaginarci nei prossimi 25 anni, dobbiamo prima di tutto immaginare forme nuovo per il nostro agire. Immaginare è d'altronde la forza e il motore di ogni innovazione sociale. La sfida del populismo deve allora diventare la nostra sfida al populismo. O, meglio, al vuoto che lo alimenta.

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