Volontariato
Cosa ho capito sulla fragilità quando la fragile sono diventata io
Cosa dire ad un’amica che vive un momento difficile? Possono le parole lenire il dolore? Una riflessione che comincia con Michela Murgia, arriva fino al gruppo coreano, ripassa da me e termina con due amiche in ginocchio
Due anni fa la mia amica S. è stata molto male. Prima si è ammalato il suo bimbo, di una patologia infida e dagli esiti tempestosi. E poi si è ammalata lei, di una malattia che non ha nemmeno un nome. È stato in quel momento preciso che ho cominciato a scontrarmi con il desiderio di dire qualcosa di giusto e l’incapacità di trovare un vocabolario adeguato. Non avevo tanto chiaro come starle vicino perché qualunque cosa io potessi dire di fronte al suo dolore mi appariva superflua. Inadatta. Incongruente. Una nota stonata.
«Mi spiace, tata». «Mi spiace molto». Tra afasia e interventi benintenzionati mi sentivo inadeguata. Persino una pessima amica.
Non mi davo pace. Possibile che non riuscissi a dire di più? Eppure la malattia mi camminava vicino da molto tempo: mi affaccio nella vita degli altri e le racconto negli articoli che scrivo per Vita. Nonostante ciò, la famigliarità con il dolore altrui non mi stava dando un vantaggio.
Ho convissuto con questo stato di inadeguatezza per molto tempo. Fino a quando, pochi mesi fa, un evento doloroso, di malattia, ha sconvolto la mia famiglia. Di fronte a questo fatto ho rintracciato nelle mie amiche più intime quella stessa goffaggine che esibivo io davanti a S.. L’ho riconosciuta nei messaggi: «mi spiace Sabi, vorrei poter far qualcosa, ma non so cosa». «Mi dispiace. Se posso aiutarti non esitare a chiedere». «Se vuoi parlare, chiamami pure. Io ci sono».
Pur avendo la certezza che siano messaggi scritti da persone che mi vogliono bene, devo ammettere che queste parole mi sono scivolate addosso come una saponetta su un marmo bagnato. Le ho registrare nella mia mente come un fatto (la mia amica Stella mi vuole bene e mi pensa), ma non mi hanno lasciato nulla.
Ho ripensato alla mia amica S., e ho iniziato a domandarmi: ora che sono dall’altra parte, ora che appartengo al mondo dei guasti, di quelli verso cui tutti si sentono in dovere di dire una parola di conforto, di consolazione, una parola bella (che poi quali sono le parole “belle”?), cosa mi piacerebbe sentirmi dire?
In realtà, anche oggi, nonostante il cambio di prospettiva, non lo so.
Non sono nemmeno certa che siano le parole lo strumento più adatto a recare sollievo, lenirne il dolore.
Poi è accaduto che sempre la mia amica S., qualche giorno fa, mi mandasse su WhatsApp il link ad una riflessione scritta da Michela Murgia nel 2021, in cui commentava cosa avesse imparato dopo aver visto su youtube un video in cui Kim Tae-hyung, il leader dei BTS (il gruppo pop coreano più famoso del mondo) si accascia sul red carpet. Era un articolo che avevo letto, ma non lo ricordavo più. La storia è questa: mentre Kim Tae si accascia sulle ginocchia, racconta Murgia, un altro membro della band, il più grande, si butta a sua volta in ginocchio e resta così fino a quando il leader non torna in piedi.
La scena genera nella scrittrice una consapevolezza. Copio qui le sue parole:
«Il fatto che nessuna persona possa rimettersi in piedi al tuo posto non le impedisce di inginocchiarsi al tuo fianco. Quel video mi dimostrava che davanti alla fragilità non esiste solo la risposta dei rapporti di forza, dove sei costrettə a chiederti chi è più potente, chi lo è meno, chi può aiutare chi e chi non può farlo. Esisteva da qualche parte nel mondo anche la categoria della parità fragile, della capacità non innata di flettersi insieme allo stesso vento finché il vento non passa, durasse anche solo i pochi secondi di un calo di pressione davanti ai fotografi».
Sbang.
È stato allora che tramite le riflessioni di Michela Murgia, e il link condivido da S., che anche io ho capito. Ho capito così che quando le parole mancano, se desideriamo aiutare un amico o un’amica che si trova in una condizione temporanea o permanente di fragilità quello che possiamo fare é inginocchiarci insieme a lei, per tornare alla storia di Kim Tae-hyung dei BTS, starle accanto, sostare. Un piccolo delicato e potente gesto che dà sostanza alla sua fatica, le dà luce, nitidezza, rispetto. Anche solo per un attimo.
Perché ogni persona che soffre, ogni individuo che per un momento breve o eterno che sia, non pensi nemmeno per un attimo di essere come un albero che cade silenzioso nella foresta, senza che nessuno lo senta. Senta la sua fatica.
Poi ho ripensato alle parole che si ingolfano, a quelle che arrivano in ritardo perché hanno giocato a nascondino, a quelle che ci danno l’assedio, a quelle che curano.
Sul mio cellulare avevo salvato questa riflessione condivisa da Roberta Marasco sulla pagina facebook “Rosapercaso”. La ripropongo qui:
«Non l’ho capito subito, mi ci è voluto qualche giorno, ma poi è diventato chiaro: le parole che ci curano sono le nostre, non quelle che ci dicono gli altri. Spiegare a un’amica in difficoltà quello che dovrebbe fare serve soltanto a farla sentire ancora più sbagliata e inadeguata. Dovremmo ascoltare di più le storie delle persone che vogliamo aiutare, senza affannarci a seppellire la loro apparente debolezza con la forza illusoria dei nostri buoni consigli».
Secondo sbang.
L’avevo memorizzata per questi due riflessioni. Primo: «le parole che ci curano sono le nostre, non quelle che ci dicono gli altri». Secondo: «senza affannarci a seppellire la loro apparente debolezza con la forza illusoria dei nostri buoni consigli»
Luigi Pintor, intellettuale ateo e comunista, ha scritto: «Non c'è in un'intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi».
Tutto ciò non rende il dolore sopportabile, ma probabilmente fa sì che non sia insopportabile.
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