Formazione
Cosa c’è dietro il boom dei disturbi dell’apprendimento?
Dovrebbero essere non più del 4-5% della popolazione scolastica, ma stanno crescendo a ritmi esponenziali, tanto che nel Nord-Ovest dell’Italia alle scuole medie rappresentano quasi il 7% degli alunni. Con l'ausilio di esperti proviamo a capirne il motivo.
Dovrebbero essere non più del 4-5% della popolazione scolastica, ma stanno crescendo a ritmi esponenziali, tanto che nel Nord-Ovest dell’Italia alle scuole medie rappresentano quasi il 7% degli alunni. Sono i cosiddetti «Dsa», i ragazzi dislessici, discalculei o con altre forme di difficoltà specifiche di apprendimento. Un tempo bollati come «lazzaroni», sono studenti con disturbi che compromettono alcune funzioni specifiche (come quelle del calcolo o della lettura); tutelati da una legge (170/2010), hanno diritto a un percorso didattico personalizzato e ad alcuni strumenti «compensativi o dispensativi», come per esempio la calcolatrice. Fin qui tutto bene.
Dando uno sguardo ai dati del ministero dell’Istruzione, si scopre però che dall’approvazione della normativa il numero dei Dsa italiani è esploso: erano lo 0,7% nell’anno scolastico 2010/11, sono arrivati al 2,1% nel 2014/2015, con punte del 6,6% nelle scuole medie del Nord Ovest e del 10% in regioni come l’Emilia Romagna.
Come ha notato il sito Tutto-scuola, esiste «una forte tendenza all’incremento», e si prevede che di questo passo «gli studenti con certificazione di Dsa finiranno per superare il numero di studenti con disabilità». E visto che nel settore secondario lo studente con Dsa ha diritto a dispense e “sconti” sugli apprendimenti, nota ancora Tutto-scuola, forse «occorre più rigore nella certificazione del disturbo per evitare che, per taluni, possa diventare un comodo strumento per giustificare risultati di apprendimento mediocri o negativi che hanno ben altre ragioni».
Un’accusa pesante, che viene però rispedita al mittente dagli esperti dell’associazione Italiana Dislessia: «I Dsa non sono sovrastimati, semmai capita il contrario», afferma la dottoressa Emanuela Iacchia, psicologa e psicoterapeuta dell’età evolutiva nonché socio fondatore dell’Aid. «Basta guardare la media italiana, che ci parla di intere regioni in cui il fenomeno è quasi ignorato. E i pericoli di una mancata diagnosi sono gravi: i bambini dislessici non riconosciuti rischiano di non capire cosa sta loro accadendo, e questo è motivo di sofferenza e disagio. Per questo prima si interviene, meglio è».
«Il problema è sovra diagnosticato nei numeri, non c’è dubbio», ribatte il professor Stefano Vicari, direttore dell’Unità Operativa di Neuropsichiatria Infantile dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma. «I test infatti non sono tutto: non basta un punteggio leggermente inferiore alla norma per fare una diagnosi. Bisogna tenere conto di tutto il quadro: un bambino che legge lentamente o scrive male ma apprende, ed è ben inserito nel contesto dei compagni, di norma non ha bisogno di nessuna certificazione».
Resta da capire allora se alcune etichette appiccicate frettolosamente derivino magari dall’ansia dei genitori: «L’ansia è sempre una cattiva consigliera», avverte Iacchia, «ma i protocolli di identificazione dei disturbi sono molto rigorosi e scientificamente validi, la probabilità di “falsi positivi” è bassissima». A patto, però, di rivolgersi alle persone giuste: «Consiglio i centri pubblici, che danno maggiori garanzie», conclude Vicari. «Anche perché attorno alle certificazioni si è sviluppato ormai un merca- to, e sarebbe deleterio sottrarre risorse alle famiglie quando non ce n’è bisogno».
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