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Corte dei Conti su 5xmille e Riforma del Terzo Settore

di Alessandro Mazzullo

La Corte dei Conti ha integrato e approvato la relazione sulla “Destinazione e gestione del 5 per mille dell’Irpef” approvata lo scorso 5 dicembre 2013.

 

La Corte, dopo aver instaurato un approfondito confronto con le principali amministrazioni coinvolte, ha confermato molte delle criticità già evidenziate lo scorso dicembre.

Tra i rilievi di maggior interesse, spiccano:

  • la necessità di una stabilizzazione dell’istituto;
  • la frammentarietà del quadro normativo;
  • i ritardi nell’erogazione dovuti anche al difetto di coordinamento tra le diverse PA coinvolte;
  • l’incompetenza del Ministero del lavoro e delle politiche sociali nella compilazione degli elenchi dei soggetti ammessi al beneficio e la conseguente scarsa efficacia nella verifica dei requisiti;
  • la necessità di un elenco unico e pubblico dei beneficiari, ecc.

Al di là di questi aspetti critici, pare particolarmente interessante il riferimento della Corte dei Conti alla necessità di una maggior selezione dei beneficiari in base all’effettiva utilità sociale della loro attività.

Secondo la magistratura contabile:

<<Benché il proliferare delle organizzazioni beneficiarie esprima la frammentazione dei bisogni della società contemporanea, si impone una più rigorosa selezione delle stesse, al fine di non disperdere risorse per fini impropri. I dati recentemente pubblicati relativi alle erogazioni per l’anno 2012 attestano che i beneficiari sfiorano, ormai, il numero di 50 mila. Per le onlus e gli enti del volontariato, quasi 9 mila enti ottengono un contributo inferiore ai 500 euro ed oltre mille non hanno ottenuto nemmeno una firma, accentuandosi, così, la frammentazione e la dispersione delle risorse. Molti beneficiari, pur non avendo finalità di lucro, non producono alcun tipo di valore sociale, rivolgendosi esclusivamente ai soci o iscritti, senza rispondere a criteri di misurabilità dell’utilità sociale prodotta. In relazione, si riferisce di casi di fondazioni legate a formazioni politiche, di associazioni di categorie professionali (notai, avvocati, militari, ecc.) e di altre categorie di beneficiari difficilmente compatibili con la ratio dell’istituto. Risulta, pertanto, improcrastinabile un rigoroso codice di selezione. Peraltro, anche fra gli enti della ricerca scientifica e dell’università ammessi compaiono alcuni che suscitano perplessità, addirittura, in taluni casi, privi di un sito web. Si impone, anche per questi, la necessità di un più rigoroso vaglio>>.

 

Credo che sia un passaggio importante che vada letto ben oltre il campo di applicazione del 5 per mille. In ballo vi è la perimetrazione e l’idea stessa di “Non profit” che si vuole tutelare.

Ed è su questo punto che si giocherà l’opera di distinzione “del grano dal loglio” cui si ispira una parte importante del ddl Delega per la Riforma del Terzo Settore (si veda ad esempio l’art. 6).

È di fondamentale importanza tutelare una libertà democratica come quella associativa (art. 18 Cost.), ma non si può porre sullo stesso piano (magari fiscale) l’utilità di un gruppo circoscritto di persone (l’Associazione “Amici di Mario”) rispetto a quella dell’intera collettività (l’Associazione per la ricerca contro una malattia rara); così come non si può porre sullo stesso piano, a parità di utilità generale dello scopo, un’Associazione ad impatto sociale zero, rispetto ad una ad impatto sociale altissimo!

Tornando all’esempio del 5X1000, ha ragione la Corte dei Conti quando stigmatizza lo sperpero di risorse causato dall’inclusione, tra i beneficiari, di quei 1000 enti che non riescono ad ottenere nemmeno la fiducia delle stesse persone che le rappresentano! Idem con patate per quegli enti che perseguono l’utilità di pochi (gli amici di Mario, appunto), piuttosto che quella collettiva.

Analoghe incongruenze le si ritrova anche sul piano fiscale. Si pensi all’art. 148, co. 3 del Tuir, che de-commercializza tout court i corrispettivi specifici pagati dagli iscritti ad enti (associazioni politiche, sindacali e di categoria, religiose, assistenziali, culturali, sportive dilettantistiche, ecc.) privi di un’effettiva utilità generale. Siamo proprio sicuri che basti definirsi “associazione culturale” per svolgere un servizio effettivo per il Bene comune?

La Riforma in discussione in Parlamento sembra aver colto questo aspetto importante. Speriamo che, con coraggio, riesca a perseguire su questa strada. Il vero banco di prova saranno i decreti legislativi che ne seguiranno…

 

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