Nairobi, marzo 2004
Guardi l?orizzonte e non riesci a vederne la fine. A sinistra un campo da golf. Erba perfettamente tagliata, tre uomini bianchi con tre sacche in spalla. Non è necessario attraversare Kibera per accorgersi delle contraddizioni di questo angolo di Africa. Ma Kibera, la più grande baraccopoli di Nairobi – abitata da 700mila persone, solo uno dei dieci principali slum della capitale del Kenya – sembra riassumerle tutte.
“Tutte le volte mi chiedo come facciano a non saltare dall?altra parte”. Padre Francesco Pierli, comboniano, 30 anni di Kenya, è l?uomo che ci vuole per visitare uno slum a Nairobi. Insegna all?Università cattolica dell?Africa orientale e sa come camminare a Kibera: in mezzo al binario ferroviario, unico e inutilizzato, che l?attraversa, come fa la gente che deve uscire o entrare nella baraccopoli. “In Kenya operano una miriade di organizzazioni non governative”, racconta. “Solo a Kibera, secondo una recente indagine governativa, ce ne sono 3mila”. Tremila in un solo slum! “Non dovrebbe esserci più lo slum, invece l?impatto di queste organizzazioni è minimo. Finché i progetti vengono pensati in qualche ufficio in Europa o in America e messi in atto qui, non cambierà molto. I miglioramenti duraturi sono quelli che partono dalle comunità locali che si organizzano. Per questo è importante la formazione. Di più: credo che la formazione in Africa sia la chiave per ogni cambiamento”.
Dieci anni fa Pierli ha fondato un istituto universitario, l?Institute of Social ministry, che con 43 corsi prepara localmente un centinaio di persone all?anno a lavorare nel sociale. La selezione è dura: oltre ai requisiti intellettuali bisogna dimostrare “un fegato adatto a lavorare nel sociale”, ovvero tre anni di lavoro sul campo, anche a titolo volontario, con un?organizzazione, a servizio di una comunità.
Favorire le reti
Gli studenti del Social ministry sono soprattutto kenioti e di altri Paesi dell?Africa orientale. Alcuni arrivano proprio da Kibera. Per tre anni frequentano i corsi al Tangaza college di Nairobi, i più poveri grazie a una borsa di studio. Poi tornano a lavorare nello slum. L?istituto fondato da Pierli ha anche un braccio operativo, Somirenec, la cui priorità è quella di favorire la nascita di reti associative e di fare da punto di riferimento per gli operatori del Social ministry che lavorano sul campo.
Un anno fa in Italia, padre Francesco Pierli ha incontrato il presidente delle Acli, Luigi Bobba. E da una sintonia di vedute su questo nuovo stile di cooperazione è nato l?impegno dell?associazione italiana di lavoratori cristiani in Kenya. Il risultato è l?incontro a Kibera del presidente delle Acli con l?associazione di lavoratori Help Employment Need in Kibera (Henk), a conclusione dei tre giorni kenioti che hanno definitivamente lanciato l?impegno delle Acli qui in Africa.
È domenica mattina. Sul binario ferroviario di Kibera è tutto un susseguirsi di vestitini sgargianti e impeccabili dai molti volant, di visi infantili che sfoggiano sorrisi ingenui e furbi e azzardano un “How are you?”, di donne vestite a festa dall?andatura decisa e composta. A Kibera, nonostante la disoccupazione si attesti al 50 %, in un modo o nell?altro si lavora. Soprattutto nell?area industriale adiacente alla baraccopoli: assemblaggio di automobili per grossi marchi, produzione della birra, fabbricazione di oggetti in plastica. Le condizioni di lavoro sono tutt?altra faccenda. Le scopriamo una volta arrivati al centro della baraccopoli, in un?aula della parrocchia Christ the King.
Dodici ore è la media giornaliera di un operaio nella locale fabbrica di zucchero. Mansione: scaricare i sacchi di zucchero da un vagone in movimento, correre fino al deposito, accatastare il sacco arrampicandosi su quelli precedentemente depositati. Paga: 3 scellini a sacco. Significa che per guadagnare un euro devi trasportare a spalla 30 sacchi da 90 chilogrammi l?uno. Un euro e mezzo è la cifra che uno svelto porta a casa a fine giornata, dopo che il responsabile ha contato i sacchi.
Un gemellaggio
Senza contratto, senza diritti sindacali, a piedi nudi per non rovinare lo zucchero. I bisogni fisiologici in una latrina condivisa con 300 persone. A piedi nudi anche lì. “Due anni fa abbiamo cominciato a raccogliere informazioni visitando le compagnie presenti nella Export Processing Zone di Nairobi, dove la produzione è finalizzata all?esportazione”, spiega Simon Souba, il responsabile di Henk. “Poi abbiamo deciso di organizzarci per la formazione, perché se sei un operaio generico, senza abilità, puoi scordarti un contratto e una paga regolare. L?organizzazione sindacale qui è inesistente”.
Le Acli ai lavoratori di Kibera propongono un?alleanza più che un progetto. L?intervento in Kenya partirà proprio dal gemellaggio fra circoli Acli e realtà nascenti sui diritti dei lavoratori come Henk e Somirenec. In Italia hanno già aderito le città di Padova, Milano e Cuneo. Da maggio una cooperante dell?Ipsia (Istituto sviluppo pace e cooperazione) sarà a Nairobi. Per avviare una stretta collaborazione con le associazioni keniote e l?Institute of Social ministry, il cui primo obiettivo sarà la formazione dei lavoratori.
Le risorse umane e i metodi saranno kenioti. “In collaborazione con il Social ministry il gruppo di autosviluppo ha compiuto un?analisi sociologica approfondita delle condizioni di vita e di lavoro a Kibera”, spiega Francesco Pierli. “C?è una base da cui partire, ci sono risorse umane e vie già intraprese per affrontare i problemi. Tutto questo ha semplicemente bisogno di essere rafforzato”.
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