Cultura

corpo italiano contro corpo tunisino

Tabù di ritorno Un'avventura estiva al villaggio paterno

di Redazione

È agosto, sono al mare in Tunisia e ho 12 anni. Infilo pantaloncini e maglietta, esco di casa silenziosamente per non disturbare il sonnellino pomeridiano degli altri, saluto con ampi gesti affettuosi il vicino di casa della nonna e vado a comprarmi un gelato, per poi gustarlo passeggiando per le mie stradine preferite. Definizione di disastro: sciagura rovinosa di uno o più eventi che apportano danni irrecuperabili o recuperabili solo a lungo termine. La sequenza delle mie azioni aveva infranto, una dopo l’altra, almeno quattro regole basilari del buon costume locale. Ero ufficialmente l’elefante nella cristalleria di famiglia, e avrei impiegato molto tempo a rimettere insieme i pezzi che mi servivano per dare un senso allo sconvolgimento che avevo causato, e che continuava ad echeggiare in me come fosse un tratto della mia personalità.

Nata per la danza
Dall’età di 3 anni avevo iniziato a chiedere insistentemente a mia madre che mi iscrivesse a lezioni di danza. RaiUno passava Maratona d’Estate, e io imitavo estasiata quel volteggiare di corpi avvolti nel tulle, capaci di fare cose meravigliose e diverse dal resto degli adulti, pareva anzi fosse un mestiere. Il copione della mia vita era scritto: sarei stata una ballerina e un veterinario (in effetti ancora oggi continuo ad amare molto gli animali). Iniziai a 6 anni, per non smettere più, e il ritmo del tempo che scorreva veniva scandito da un lato dai miei miglioramenti e dall’altro dalla domanda puntuale e inesorabile di mio padre, un fuoco d’artificio che mi esplodeva nel cuore: «Anche quest’anno devi fare danza?».
Con gli ormoni dell’adolescenza, il mio corpo aveva iniziato a fare cose che io stessa ritenevo inaccettabili, come ingrassare e rendermi goffa, ma allo stesso tempo potevo anche sentirne il potere. Così, se in parte odiavo gli sguardi che si posavano su di me, in parte li cercavo, danzando, per soddisfare il mio bisogno di esistere, e di farlo secondo regole che potevo stabilire da sola. E a quell’età stabilire le regole per quando, dove e come accendere e spegnere i riflettori che puntassero su di me era una faccenda piuttosto fuori dal controllo di chiunque. Cominciai a sperimentare il limite, a giocare col proibito, e ovviamente lo feci nel luogo ideale, là dove i miei comportamenti erano più visibilmente spudorati e inappropriati.
Le estati passate in Tunisia divennero tragicomiche occasioni per testare e dissacrare tutto ciò che esigeva condotte preordinate. Molti episodi rimarranno per sempre negli annali del sottobosco massonico cui avevo dato vita con altre tre cugine, ma uno in particolare dimostra quanto facilmente un divieto ingiustificato, perché semplicemente non condiviso, possa trasformarsi in creativa ribellione.
Un tardo pomeriggio di noia mortale, dopo un’ennesima giornata passata in casa «come si confaceva a due giovani signorine», io e mia cugina Fatma decidemmo di agire per salvare la nostra integrità psicofisica. Rimediati due sefseri in cui avvolgerci dalla testa ai piedi, assolutamente secondo tradizione, ci lanciammo in un’esplorazione notturna del villaggio, assolutamente proibita. Ricordo la gioia euforica nello sbirciare dalla fessura che lasciava liberi gli occhi, eravamo invisibili e potevamo andare ovunque, anche passare in mezzo ai ragazzi che di solito ci importunavano al mercato.
Non so se ci tradirono le mie Reebok col logo fucsia, le corporature inverosimilmente esili o i risolini soffocati a stento sotto le stoffe bianche, ma qualcuno iniziò a insospettirsi. Ci voltammo per tornare sui nostri passi, ma in pochi secondi avevamo tutta l’attenzione puntata addosso e alcuni, fissandoci, avevano cominciato a sgasare minacciosamente coi loro motorini. Quando un uomo si mise ad urlare da un balcone, iniziammo a correre letteralmente a vele spiegate, rivelando definitivamente il nostro gioco. Le gambe veloci salvarono noi, e mia madre e la zia Khdija pensarono a salvare le apparenze. Noi varcammo la soglia di casa e sparimmo velocemente in una stanza; loro due, presi i nostri sefseri, se li appoggiarono addosso con calma disinvolta, e, guardando la folla sopraggiunta, richiusero semplicemente la porta. L’ordine era stato silenziosamente ristabilito.

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