Convention Cgm
Cooperazione sociale: bisogna mettere al centro la redditività del lavoro
Oggi se chiediamo alle imprese sociali “qual è la risorsa che più manca?”, spesso rispondono: “le persone”. Ma perché è così difficile trovarle? Uno dei principali nodi da sciogliere resta quello del riconoscimento economico del lavoro sociale. «Abbiamo messo al centro i destinatari dei nostri servizi, dimenticando che le persone intorno a noi, all’interno delle nostre imprese, stavano male, insoddisfatti da una remunerazione bassa ed esclusi dai processi decisionali», dice Stefano Granata, presidente Confcooperative Federsolidarietà
di Anna Spena
“Generazioni al lavoro: un nuovo contratto sociale” è stato uno dei temi principali affrontato durante la XV convention di Cgm dal titolo “Direzioni – Intelligenze collettive per una nuova economia sociale” (organizzata a Bologna dal 20 al 22 giugno). Cgm è un consorzio che opera su scala nazionale attraverso una grande rete di consorzi territoriali, imprese e cooperative sociali: per la convention si sono date appuntamento 350 cooperative e imprese sociali. Al panel, moderato dal direttore di VITA Stefano Arduini, hanno partecipato: Silvia Zanella, manager e autrice che si occupa di futuro del lavoro; Francesco Seghezzi, presidente Adapt, associazione per gli studi internazionali e comparati sul diritto del lavoro e sulle relazioni industriali; Rita Ghedini, presidente Legacoop Bologna; Stefano Granata, presidente Confcooperative Federsolidarietà e Matteo Caramaschi, presidente Confcooperative Terre d’Emilia.
Al tema del lavoro sociale avevamo dedicato un intero numero di VITA “Lavoro sociale, lavoro da cambiare“. Un lavoro, come è emerso anche dal panel, che vive una stagione difficile.
Oggi se chiediamo alle imprese sociali “qual è la risorsa che più manca?”, spesso rispondono: “le persone”. Ma perché è così difficile trovarle? Da un lato la crisi demografica e l’andamento del mercato del lavoro stanno presentando il conto, ma non ci si può limitare a questi dati. Nel mondo della cooperazione sociale esistono diverse criticità, tra cui la sfida della redditività. L’intero asset economico è chiamato a rispondere alle nuove richieste del mercato, in cui il capitale umano diminuisce in numero ma aumenta al contempo la richiesta di tutele e attenzioni che fino ad ora non erano mai state affrontate.
Anzitutto: «La crisi del lavoro è una trasformazione che non riguarda solo il mondo del sociale», spiega il direttore di VITA Arduini. Un dato su tutti: «Le aziende italiane cercano quasi 800mila laureati e le stime dicono che il 50% delle imprese non li troverà. L’istat sostanzialmente ci dice che siamo in una fase di piena occupazione. Stiamo vivendo anche un altro fenomeno: quello dei giovani che sono in fuga dal lavoro. E ancora il tema dell’abbandono silenzioso del lavoro. Tutti fenomeni contrastati tra loro mentre, allo stesso tempo, dilaga anche il fenomeno del lavoro povero. Lo storytelling del mondo del lavoro è molto complicato, è uno storytelling in cui oggi è molto difficile provare a mettere ordine».
Ma da che punto si può iniziare? Che strumenti possiamo immaginare? La riflessione non può che partire dal mondo del lavoro in generale, non solo quello sociale, come spiega Zanella: «Il lavoro ha perso il proprio senso perché i lavoratori hanno messo in discussione le proprie priorità. Durante la pandemia, sono emerse nuove necessità a cui le imprese non sono state in grado di rispondere. Non hanno saputo supportare i propri dipendenti, non sono state al passo con le innovazioni, non hanno fornito formazione e di conseguenza non offrono una motivazione valida». Poi, «se facciamo un focus specifico sul lavoro sociale», continua Zanella, «notiamo ulteriori complessità. L’impresa sociale si fonda su un sistema valoriale, focalizzato a far stare bene il proprio cliente. Ma è sempre meno attento a chi lavora all’interno della propria organizzazione. Per questo, chi lavora in questo settore ha un enorme occasione di trasformazione: comunicare concretamente i propri scopi, senza temere le nuove tecnologie, affinché l’organizzazione stessa del lavoro si modifichi e diventi distintiva».
Il questa trasformazione a fare da spartiacque è stata la pandemia: «Il modello “lavoro come forma di liberazione” pian piano si è sgretolato», analizza Seghezzi. «Il covid ci ha svelato come questa idea ci abbia mandato in esaurimento, facendoci al contempo dimenticare una serie di aspetti intrinsechi al lavoro stesso. Come, ad esempio, il valore del rapporto relazionale, che è relazione con il mondo».
Certo è che il discordo diventa ancora più articolato quando parlano di imprese dell’economia sociale: «Questo tipo di imprese», dice Ghedini, presidente Legacoop Bologna, «rispetto ad altre forme di imprenditoriali, da un lato si configurano come ottimi datori di lavoro quando pensiamo alla continuità, dall’altro sono – siamo – decisamente meno attraenti e attrattiva per la quantità di lavoro offerto. Abbiamo alte percentuali di part-time che comporta quindi un trasferimento di reddito inferiore alle persone. Da un’analisi che abbiamo svolto sui giovani tra i 18 e i 35 anni, emerge che sì le aspettative di senso sono e rimangono molto forti, ma allo stesso tempo al primo posto c’è la richiesta di un reddito giusto che renda autonomi. Abbiamo di fronte delle platee di giovani che hanno potuto costruire dei curricula formativi molto importanti. Che cosa possiamo offrire loro come cooperative?».
Uno dei principali nodi da sciogliere resta quello del riconoscimento economico del lavoro: «Il problema è che bisogna dare riconoscimento sociale e reddituale al lavoro dell’impresa sociale», spiega Stefano Granata, presidente Confcooperative Federsolidarietà. «Ed è innanzitutto la comunità che non ritiene necessario remunerarlo, considerando i lavoratori del Terzo settore ancora come falsi volontari. È evidente che ci sia qualcosa che non funziona. Il passaggio che bisogna fare è culturale: il riconoscimento deve avvenire innanzitutto nella comunità. È una questione di consapevolezza e di approccio: oggi dobbiamo avere il coraggio di proporre dei modelli organizzativi nuovi, lontani dalle strutture antiquate degli anni Ottanta. La cooperazione sociale deve essere fatta di mutualità interna e mutualità esterna. Abbiamo messo al centro i destinatari dei nostri servizi, dimenticando che le persone intorno a noi, all’interno delle nostre imprese, stavano male, insoddisfatti da una remunerazione bassa ed esclusi dai processi decisionali. Inutile parlare di spinta emotiva, innovazione e volontà delle imprese sociali. Non basta! Dobbiamo rivedere i nostri modelli organizzativi e il nostro modello decisionale. Costruire dei processi di partecipazione reale all’interno dell’impresa. Ci vuole coraggio e bisogna tornare a fare delle scelte collettive. Se affermiamo di essere qualcosa di diverso dobbiamo anche tradurlo in azioni concrete».
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