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Cooperazione: percorsi virtuosi nonostante il calo aiuti

«La notizia della diminuzione degli aiuti allo sviluppo globale – per la prima volta dal 2012 – introduce una discontinuità con la quale dobbiamo fare i conti». L'analisi del direttore generale e della responsabile della comunicazione della Associazione Volontari per il Servizio Internazionale

di Giampaolo Silvestri* e Maria Laura Conte

Se vogliamo è solo uno 0,6% in meno, ma la notizia della diminuzione degli aiuti allo sviluppo globale – per la prima volta dal 2012 – introduce una discontinuità con la quale dobbiamo fare i conti. Anche perché il dato di fonte Ocse è stato diffuso proprio mentre in Italia siamo un po’ tutti in allerta per capire che piega prenderà il Def e se saranno mantenuti gli impegni presi in materia di cooperazione dai governi Renzi e Gentiloni. Il rischio che abbiamo di fronte è quello di una seppur parziale crisi di disaffezione nei confronti dei finanziamenti per lo sviluppo.

Ma prima di emettere un giudizio così netto dobbiamo scavare nei numeri e capire come la diminuzione documentata dall’Ocse alla fin fine si spieghi con il calo dei costi dell’assistenza ai rifugiati (-13,6%), che i donatori si ostinano a conteggiare come aiuti allo sviluppo. L’Italia a un primo esame appare in controtendenza, visto che si è passati dallo 0,27 allo 0,29%, raggiungendo l’obiettivo fissato dal governo Renzi nel 2015. Ma la promessa di aumentare gli investimenti è stata mantenuta grazie al cosiddetto “aiuto gonfiato”: il nostro Paese, con Germania e Grecia, infatti ha speso più di un quinto del budget del suo Aps per pagare i costi dell’assistenza ai rifugiati e richiedenti asilo nel territorio nazionale.

L’equivoco tra aiuti allo sviluppo e interventi per la sicurezza
Siamo arrivati dunque alla contraddizione che agita il sistema della cooperazione: si definiscono “aiuti allo sviluppo” quelli che invece sono a tutti gli effetti interventi per la sicurezza, il controllo delle frontiere e l’accoglienza dei flussi migratori, quindi investimenti che hanno di mira immediatamente un tornaconto di carattere nazionale (e che che guarda più agli elettorati che alla solidarietà internazionale). Una tendenza che, per via della volatilità dei test politici, appare in crescita. Le organizzazioni che per mestiere realizzano progetti di sviluppo hanno dunque ragioni buone per richiamare le autorità a una maggiore coerenza e quindi a tornare ad assumere come criterio selettivo un orientamento che risponda effettivamente ai 17 obiettivi di sviluppo sostenibile dell’agenda 2030. Specie in prossimità della definizione del bilancio europeo per il prossimo settennato, il Multiannual Financial Framework.

Per evitare di giocare solo sulla difensiva il passo in avanti da fare è chiarire quale tipo di aiuto sia da considerarsi “genuino”, un aggettivo da intendersi in senso tecnico, da affiancare a sostenibile e duraturo. E la via più diretta è andare a conoscere quel che già avviene sul terreno, le best practices, piuttosto che le elaborazioni dei teorici della cooperazione.

La via delle best practices e l’esempio dell’Uganda
Prendiamo il caso dell’Uganda, un Paese che, emancipatosi finalmente da situazioni di emergenza continua, si propone come un modello per la capacità di progettare sul lungo periodo e con modalità innovative. Basti citare Score, un progetto di sette anni, appena conclusosi. L’acronimo sta per Sustainable Comprehensive Responses for Vulnerable Children and their Families e comprende l’obiettivo e il senso di quel progetto: cercare risposte sostenibili e globali ai bisogni dei bambini vulnerabili e delle loro famiglie. I numeri aiutano a coglierne la dimensione e l’impatto: 208 mila le persone coinvolte, 34 mila i nuclei famigliari raggiunti, 50 i partner per l’attuazione del progetto, oltre 200 le persone dello staff impegnato.

Finanziato da USAid e realizzato da Avsi Uganda e da un consorzio di Ong che include Care, Tpo e Fhi360, Score ha puntato a sviluppare i rapporti interni alle comunità, favorendo le relazioni con le istituzioni locali, piuttosto che concentrarsi sulla mera distribuzione dall’alto di beni o servizi. Se vogliamo riassumerli quattro sono infatti gli obiettivi strategici di Score: rafforzamento socio-economico, sicurezza alimentare e nutrizione, protezione dell’infanzia e rafforzamento delle famiglie.

Il percorso di Score, per i bambini vulnerabili e le loro famiglie
Se a parole può sembrare un progetto come un altro, il lungo cammino di Score, partito nel 2011 e conclusosi nel 2018, si è retto su cinque segna passo, che rivelano un metodo e un contenuto al tempo stesso.

  • 1. Un progetto deve partire sempre dal riconoscimento del valore della persona. Se questa era una bandiera quasi esclusiva delle Ong di sviluppo, oggi è diventata materia per la pubblicità del settore profit, dagli occhiali alle assicurazioni. Ma ciò non giustifica la rinuncia, anzi: porre al centro la persona e il suo valore si traduce nel mettere sempre a fuoco le domande e i bisogni effettivi dei beneficiari, coinvolgendo in questa ricerca-ascolto e costruzione della risposta i partner e lo stesso staff. Come se tutti fossero chiamati a sedersi al “posto del guidatore”.
  • 2. La persona è considerata sempre inserita in una trama di relazioni: la famiglia, la sua comunità, le istituzioni, le imprese. Mai come un’isola. Perché questo approccio amplia la gamma di possibili punti di forza su cui insistere. Se Score ha lavorato con 208 mila persone singole, incontrate una a una, al tempo stesso era interessato a coinvolgere le loro famiglie con proposte tagliate su misura. Nessuna proposta generica, ma sempre bilanciata. Il progetto non segue un itinerario top down, nasce dalla relazione di scambio che chiama l’io di ciascuno a esporsi.
  • 3. Avsi ha raggiunto i risultati previsti perché ha lavorato con il donatore, con i ministeri ugandesi competenti, con 50 organizzazioni partner, istituti di ricerca, agenzie, enti e istituzioni locali. Questo moltiplicarsi e intrecciarsi di collaborazioni ha permesso non solo di aumentare le possibilità di sostegno a vantaggio dei beneficiari, ma anche di tenere presente una molteplicità di fattori che alla singola organizzazione sfuggirebbero e, quindi, di alzare il livello della proposta e il successo dell’azione.
  • 4. Coinvolgimento degli gli stakeholder. Score si è retto sulla chiamata all’azione di diversi soggetti della società civile, dozzine di piccoli partner locali, associazioni, gruppi di famiglie, di risparmio, di genitori. Ha favorito in modo sistematico l’associarsi di persone attorno ad esigenze molto pratiche (il risparmio, per esempio), favorendo indirettamente anche una partecipazione più attiva alla vita civica e democratica. Per avere un dato concreto: si sono costituiti 1625 gruppi di risparmio e credito di villaggio per un totale di 37 mila membri che hanno risparmiato insieme 3.889.055 milioni di dollari. Questa serie di attenzioni ha reso praticabile il cosiddetto modello di graduation: ogni beneficiario è stato accompagnato, con proposte “su misura”, a uscire dalla situazione di non autosufficienza ed esposizione alla povertà per diventare autonomo. Di fatto è come se fosse stato accompagnato a “laurearsi”. I sette anni di Score sono stati cadenzati da migliaia di graduation, celebrate in momenti ufficiali quasi a segnare l’uscita del beneficiario dal progetto e la sua ripartenza. Chi ha potuto partecipare a questi momenti di festa, balli e testimonianze personali e commoventi di riuscita ha potuto cogliere la soddisfazione (quasi paradossale) di ogni laureato di uscire dalle maglie di protezione del progetto. Se in genere, infatti, il beneficiario tende a chiedere di restare dentro un progetto, in questo caso è accaduto il contrario.
  • 5. Imparare dall’esperienza e capitalizzare le lezioni apprese. Da Score, ormai modello di riferimento, è gemmato un altro progetto, “Graduating to resilience”, sempre sostenuto da USAid, di sette anni, di sostegno e accompagnamento ai rifugiati e profughi riparati in Uganda dai Paesi vicini.

Non si riparte da zero, ogni volta si compie un passo avanti
Questi cinque sono i tratti distintivi, azzardiamo, di uno sviluppo genuino, sostenibile e duraturo. Chi ha investito in questa direzione, ha generato autonomia e capacità imprenditoriale. Certo non ha risolto il problema della sicurezza a casa nostra, né terrà i migranti fuori dai nostri confini. Ma i vantaggi anche per “casa nostra”, su piani diversi, si misureranno nel lungo periodo. Il nemico è anche in questo caso l’autolimitarsi da soli l’orizzonte, opzione che induce per forza a scelte miopi e – soprattutto – non in linea con il primato che il nostro Paese in questo ambito può vantare.


*Giampaolo Silvestri è il segretario generale di Avsi
**Maria Laura Conte è direttore della comunicaizone di Avsi

da Affari Internazionali del 23 aprile 2018​

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