Mondo

Cooperazione italiana allo sviluppo: ora o mai più

di Cecile Kyenge

Fra le riforme italiane già in atto, ancora poco riconosciuta nel dibattito pubblico ma rilevantissima, va annoverata anche la nuova Legge 125 del 2014 che riforma l’impianto della nostra cooperazione internazionale. Tra le novità più significative vi è l’istituzione dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, una svolta importante nella storia della cooperazione italiana, al via in queste settimane. Sarà compito della neo direttrice dell’Agenzia, Laura Frigenti, in stretto raccordo con il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale, costruire mattone dopo mattone un nuovo edificio destinato a diventare il faro del nostro modello di cooperazione ed aiuto allo sviluppo nel mondo.

Come ha giustamente sottolineato la stessa Frigenti nell’intervista rilasciata a Vita.it, questo mondo è cambiato radicalmente nell’ultimo decennio. Purtroppo, sia sul piano dei numeri che su quello delle idee, l’Italia è rimasta troppo indietro nella classifica dei donatori stilata dall’OCSE/DAC e nei dibattiti internazionali sul futuro e il ruolo della cooperazione allo sviluppo. Dopo anni di vacche magre, sono sicuramente segnali positivi la volontà del Presidente del Consiglio Matteo Renzi di agguantare il quarto posto del ranking del G7 entro il 2017 e il primo coerente passo nell’ultima manovra approvata, con l’aumento delle risorse per l’aiuto pubblico allo sviluppo di 121 milioni di euro per il 2016, circa il 40% in più rispetto ai fondi attuali.

Numerose le sfide che attendono l’Agenzia. Vorrei soffermarmi su tre aree geografico-tematiche che ritengo strategiche per il futuro della cooperazione italiana: l’Africa, il settore privato e le migrazioni. Il continente africano va considerata finalmente come area geografica privilegiata dalla nostra cooperazione, ed è scritto nero su bianco nel Documento di programmazione triennale (2015-2017) pubblicato dal MAECI lo scorso anno. La scelta di fare dell’Africa una priorità assoluta della politica estera italiana è confermata dal numero visite di Stato effettuate da Matteo Renzi nel continente africano. La prossima visita prevista dal 1 al 3 febbraio in Nigeria, Ghana e Senegal – la terza in due anni – è la dimostrazione di un livello di attenzione strategica che ha pochissimi precedenti a Palazzo Chigi. Non solo. Sui 20 paesi prioritari del Sud del mondo identificati dalla Cooperazione italiana, 9 sono africani: Burkina Faso, Senegal, Niger, Etiopia, Kenya, Somalia, Sudan, Sud Sudan, Mozambico.

Tutte novità e premesse positive. Rimane ora da capire cosa intendiamo fare in Africa, soprattutto come e con quali attori. Partirei dalla fondamenta, e cioè proprio dalla nuova legge sulla cooperazione, e in special modo dall’articolo 1, secondo il quale “la cooperazione allo sviluppo, nel riconoscere la centralità della persona umana, nella sua dimensione individuale e comunitaria, persegue, in conformità coi programmi e con le strategie internazionali definiti dalle Nazioni Unite, dalle altre organizzazioni internazionali e dall’Unione europea, gli obiettivi fondamentali volti a sradicare la povertà e ridurre le disuguaglianze […]; tutelare e affermare i diritti umani […] e prevenire i conflitti”.

Questo articolo afferma il principio costituente che dovrebbe ispirare l’azione coerente di tutti gli attori coinvolti nella nuova cooperazione italiana. Tra questi, oltre alle ONG e alle cooperative, il settore privato e le diaspore sono ora chiamati a svolgere un ruolo di grande importanza. Non è un caso se, dei quattro gruppi di lavoro istituiti la scorsa settimana nel Consiglio nazionale per la cooperazione allo sviluppo (CNCS), il gruppo “Strategie e linee di indirizzo della cooperazione italiana allo sviluppo” verrà guidato da Giovanni Rocca, coordinatore dell’area Cooperazione Internazionale di Confindustria, mentre Adrien Cleophas Dioma, membro del CNCS in qualità di rappresentante delle organizzazioni e associazioni di immigrati, è stato scelto come coordinatore del gruppo “Migrazioni e Sviluppo”.

Dobbiamo assumere che il coinvolgimento del settore privato, delle imprese italiane, è decisivo non soltanto nell’ambito degli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs), ma anche nello stesso modello di cooperazione che puntiamo a costruire per l’Italia. Ancora una volta, le prime dichiarazioni pubbliche della direttrice dell’Agenzia vanno nella direzione giusta: “La questione non è quanto sono voluminose le risorse degli aiuti pubblici allo sviluppo”, ha dichiarato a Vita Laura Frigenti, “ma come riescono ad operare in modo catalitico per far convergere flussi finanziari privati a favore dello sviluppo”.

Da un decennio ormai, la Commissione Europea rimarca il valore aggiunto del coinvolgere il settore privato nella lotta contro la povertà e le disuguaglianze sociali. Chi non ha sentito parlare del famoso “effetto leva” che gli aiuti pubblici allo sviluppo (APS) dovrebbero generare, per attrarre fondi privati nella cooperazione allo sviluppo ? La stessa Commissione afferma che a fronte di 1,2 miliardi di euro di aiuti provenienti dal budget multilaterale UE, dagli Stati Membri e dal Fondo Europeo per lo Sviluppo (FES), si sono ottenuti dalle istituzioni finanziarie prestiti per circa 32 miliardi di euro, finanziando progetti per oltre 43 miliardi. Ma con quali risultati ? Dal Parlamento Europeo alla Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD), passando per la Corte dei Conti dell’UE e le stesse reti di ONG, in molti hanno denunciato la mancata trasparenza dei meccanismi di gestione di strumenti finanziari come il “blending” e la debolezza degli strumenti che ne accertino l’efficacia. Una cosa quindi deve essere chiara: i progetti co-finanziati dal privato rispettino i medesimi criteri sociali e ambientali. Il nuovo, e  necessario, rapporto con le imprese e con le istituzioni finanziarie private del Paese non può mettere la nostra cooperazione internazionale a servizio dell’internazionalizzazione  del mondo imprenditoriale. Anch’essa necessaria, ma con altri strumenti.

Di fondi c’è bisogno, così come del settore privato capace di generare posti di lavoro e quindi ricchezza su ampia scala, ma mai mettendo tra parentesi diritti umani, sociali e ambientali che devono rimanere al cuore della progettazione dell’Agenzia, sia in termini di obiettivi che di impatto. Dopo una lunga campagna, nel maggio 2015 il Gruppo dei Socialisti e Democratici europei è riuscito a ottenere la maggioranza di voto a Strasburgo sulla proposta per escludere i minerali provenienti da zone di guerra dal mercato europeo, sia come materie prime sia come prodotti lavorati. Questo nonostante la strenua opposizione dei conservatori del PPE e di un’intesa campagna lobbyistica condotta da Business Europe, la Confindustria europea. Come sottolinea Luca De Fraia di Action Aid Italia, per scongiurare i rischi di violazione dei diritti umani e ambientali, “ogni operazione finanziata con gli aiuti deve poter dimostrare di raggiungere dei risultati nella lotta alla povertà secondo i principi per l’efficacia. E’ una prova che tutti devono potere superare, anche il settore profit”.

Il secondo attore su cui vorrei soffermarmi sono i migranti e il loro apporto allo sviluppo dell’Africa. La crisi del Mediterreano ha dimostrato l’urgente necessità di adottare un approccio olistico ai fenomeni migratori. Il 18 gennaio scorso, ho presentato a Strasburgo la prima bozza di un rapporto sulle migrazioni di cui sono co-relatrice, che sarà votato nei prossimi mesi in plenaria al Parlamento europeo. Oggi rispetto a ieri, il cambio di paradigma è che il fenomeno migratorio non si contrasta, ma si governa e gestisce attraverso tutte le politiche e gli strumenti di cui disponiamo, nella combinazione ottimale tra politica interna ed estera.

Concretamente, significa riconoscere anche canali di migrazione circolare legale fra l’Africa e l’Italia,  quindi il valore della mobilità che, così come ha un’andata, può avere anche un ritorno, l’uno e l’altro fattore di sviluppo se governati, assegnando un ruolo strategico alle diaspore africane presenti sul nostro territorio nella stessa nostra cooperazione allo sviluppo. Nel 2013, il contributo dei migranti al PIL italiano è stato dell’8,8%, pari a 123.062 miliardi di euro, a fronte di una presenza di stranieri in Italia poco superiore all’8% della popolazione residente. Non solo. Le rimesse dei migranti, special modo quelli africani, hanno un potenziale importante che meriterebbe un’attenzione particolare da parte della cooperazione italiana. Il gruppo di lavoro del CNCS dedicato a “migrazioni e sviluppo” potrebbe essere una vera fucina di idee in questo senso, e sull’apporto dei migranti per lo sviluppo dell’Africa in generale; infine, la stessa diaspora africana deve cogliere questa opportunità presentando proposte e progetti credibili all’Agenzia, in partenariato con gli altri stakeholders della cooperazione italiana, il cui destino ci chiama tutti in causa.

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