Economia
Cooperative, il destino dell’apripista
Le cooperative e l’innovazione sociale sono legate a doppio filo, ieri come oggi. È la forma più “gettonata” per tenere insieme innovazione e responsabilità sociale, impresa, flessibilità realizzativa. La cooperativa non può non muoversi sul terreno del valore sociale della propria azione, dell’essere nei luoghi di fragilità e marginalità per praticare cambiamento. Se non lo fa, si spegne e diventa un'impresa come le altre. L'ex presidente di Legambiente interviene nel dibattito aperto da Andrea Morniroli e Marisa Parmigiani
In questa fase di grandi e decisive sfide, mentre la storia sembra voglia tornare ai mostri del ’900 dimenticando quanto la pandemia ci ha insegnato, non è un tentativo di distrazione il tornare a ragionare di movimento cooperativo per sollecitare una riflessione sulle sue ragioni profonde, storiche ed ontologiche e sulle opportunità che oggi può offrire, come ci propone il documento Per un’economia più giusta – La cooperazione come argine delle disuguaglianze e abilitatore di giustizia sociale.
Alla fine degli anni Settanta, in una Roma illuminata dalle giunte Argan e Petroselli, un gruppo di giovani alpinisti e speleologi avviò la cooperativa La Montagna per fare di una passione (tradizionalmente riservata al tempo libero) un’occasione di lavoro a tempo pieno, inventando nuove attività e sperimentando forme di turismo all’aria aperta. Inizia così il mio personale intreccio con il movimento cooperativo. Eravamo ancora nel pieno del boom del turismo consumistico di massa e rivalutare la natura come occasione per esperienze esistenziali nuove e formative non era certamente di moda. La cooperativa si incrociò con le nuove forme di soggiorni estivi del Comune di Roma per i ragazzi delle periferie, normalmente esclusi da ogni vacanza, e si inventò i campi estivi nel Parco Nazionale d’Abruzzo con una innovativa metodologia didattica, riportata poi anche nelle proposte per i campi scuola, che di lì a poco avrebbero cominciato a movimentare le gite scolastiche.
Dieci anni dopo, circa, in Legambiente l’esperienza si ripete e si allarga. Nell’azione complessiva a scala nazionale dell’associazione, nasce e si consolida rapidamente il “settore scuola”, si sviluppano le proposte educative in città ed in natura. E qui, di nuovo, gruppi di giovani, residenti in aree interne, scoprono l’opportunità di fare della marginalità e abbandono di quelle aree una risorsa per lavorare, un bene comune da valorizzare. Nascono i Centri di Educazione Ambientale lungo la dorsale appenninica e non solo e cooperative di giovani educatori, radicate nel proprio territorio, recuperano strutture abbandonate, sollecitano gli enti locali, creano un inedito flusso di turismo educativo, spesso finanziati da enti locali. Una pratica innovativa, aperta soprattutto a chi non si può permettere di andare in natura dalle metropoli, che ha creato un tessuto diffuso di educazione ambientale ed ha prodotto innovazione didattica nella scuola istituzionale, in cui le associazioni ambientaliste e pedagogiche hanno funzionato da incubatrici culturali di nuove cooperative.
Poi sono arrivate, con il nuovo secolo, ulteriori sfide innovative: le cooperative di comunità, nelle aree interne, che, più recentemente, si stanno sperimentando nei quartieri periferici e possono diventare uno degli snodi virtuosi per la “città dei 15 minuti”, oppure le cooperative sociali che si misurano con i temi della giustizia sociale, sanitaria e ambientale, come quelle delle micro aree di Trieste. E, ancora, nell’economia circolare si sono aperti, grazie alle cooperative, nuovi lavori nel riciclo dei materiali usati e dei rifiuti, dando così sostanza e stabilità a un pezzo importante di green society.
Se un insegnamento posso ricavare dalla mia esperienza personale e associativa è il ruolo pionieristico, da apripista, che è alla base dell’agire in cooperativa. Quando questo non accade, la cooperativa si spegne, rientra nei ranghi di un’impresa come le altre, che cerca solo di utilizzare gli spazi normativi, contrattuali e di mal funzionamento della PA per assicurarsi la sopravvivenza nello spazio subordinato della sussidiarietà.
Ed oggi, appena nascono nuove sfide, come nel caso della crisi energetica e climatica, la forma cooperativa si afferma subito come quella più “gettonata” per tenere insieme innovazione e responsabilità sociale, impresa, flessibilità realizzativa. Sta avvenendo, ad esempio, con le “comunità energetiche solidali”, mentre si comincia a delineare la necessità di avere strutture nelle periferie che accompagnino le famiglie in condizioni di povertà energetica per trovare le soluzioni più adeguate, facilitando anche l’accesso alle informazioni.
Insomma, se un insegnamento posso ricavare dalla mia esperienza personale e associativa è il ruolo pionieristico, da apripista, che è alla base dell’agire in cooperativa. Quando questo non accade, la cooperativa si spegne, rientra nei ranghi di un’impresa come le altre, che cerca solo di utilizzare gli spazi normativi, contrattuali e di mal funzionamento della PA per assicurarsi la sopravvivenza nello spazio subordinato della sussidiarietà. E, per farlo, il movimento cooperativo non può non muoversi sul terreno del valore sociale della propria azione, dell’essere nei punti di fragilità e marginalità, per praticare cambiamento. I fili dell’innovazione sociale, che danno valore all’esperienza cooperativa e non possono non esserne costitutivi sono allora lavoro, passione personale, senso di utilità sociale, copertura di spazi e funzioni che altrimenti verrebbero lasciati deserti, a danno dei più vulnerabili. E quindi, in un’era che ha fatto della crescita delle disuguaglianze la molla della crescita economica, vuol dire andare obbligatoriamente contro corrente e creare spazi e opportunità di giustizia, sociale ambientale di genere generazionale culturale territoriale.
Certo non tutto è rosa. Nelle pratiche concrete, nelle difficoltà del rimanere in campo spesso si perde il senso della partita che si sta giocando, si rischia di produrre altro lavoro povero, di dipendere dalle stagioni della politica. Ecco perché, allora, serve una infrastruttura capace di sollecitare e accompagnare e far crescere questa consapevolezza, che è soprattutto culturale, se vuole essere anche imprenditoriale.
*Ambientalista, insegnante, Vittorio Cogliati Dezza, impegnato in Legambiente dagli anni ’80, ne è stato presidente nazionale dal 2007 al 2015. Oggi è membro del Coordinamento del Forum Disuguaglianze e Diversità e si occupa di giustizia ambientale e sociale. È stato membro di Commissioni ministeriali per la riforma della scuola con i ministri Berlinguer, De Mauro e Fioroni. Autore di numerose pubblicazioni, in campo ambientale ed educativo, ha pubblicato Alla scoperta della green society (2017) e ha collaborato alla stesura delle 15 Proposte per la giustizia sociale (2019). Ha pubblicato un contributo nel volume collettivo Covid 19: costruire il futuro (2020) e il saggio Crisi ecologica e futuro negato. Disuguaglianze di cittadinanza per Scuola Democratica (2021). Recentemente ha pubblicato l’articolo Ambiente in costituzione su Menabò Etica ed Economia ed altri articoli su periodici e giornali on line.
Foto di Luca Micheli su Unsplash
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