Formazione

Cooperanti per caso. E poi, per la vita

Volontari perchè? Cinque operatori dell’Avsi spiegano le ragioni di una scelta

di Sara De Carli

Innanzitutto questo fantomatico istante della scelta non se lo ricordano. Cioè non c?è stata nessuna folgorazione. Secondo, ti raccontano una storia. Fatta di persone, di amici, di ?per caso?: tu ti sei trovato lì e hai risposto. Nel nostro caso, le storie sono cinque, tante quanti i cooperanti Avsi che abbiamo messo attorno a un tavolo. Sono Edoardo Tagliani, biellese, classe 1973, da due anni nella Repubblica Democratica del Congo; Fabrizio Pellicelli, architetto, 39 anni, romano, dal 1998 a Salvador de Bahia; Simone Andreozzi, 40 anni, toscano, formatore in Albania dal 1998, da quando su Vita ha letto che Avsi cercava un volontario a Tirana per 18 mesi. E due donne, cooperanti storiche di Avsi: Rosalba Armando, cuneese, in Siberia dal 1992, e Lucia Castelli, medico pediatra, che si è fatta il Rwanda del 1994 e da otto anni è in Uganda. «Non fai questo lavoro perché sei più bravo degli altri, ma solo perché hai questa predisposizione: ti va? di condividere con un altro popolo un pezzetto della tua vita», dice Lucia con candore. Magari per tre mesi o per un anno, come sfida o così per provare, perché è in linea con il tuo lavoro o perché hai voglia di cambiare, «anche se poi scopri che tutti sono partiti con un contratto di tre mesi e finisce che sono in giro da vent?anni», dice Edo. Cosa ti fa partire. E poi restare Lui faceva il giornalista, poi è passato («ed è stato un errore», dice), a fare ufficio stampa per alcune amministrazioni locali. La cooperazione l?aveva sempre vista per mestiere, finché un amico è partito per il Rwanda. «Piacerebbe anche a me», gli ha detto una sera. Quello dopo un po? l?ha chiamato, «ci sarebbe un posto in Congo», ed Edo ha detto di sì. «Quando parti le motivazioni sono superficiali: un po? un ideale teorico, generale, e un po? qualcosa di personale, che per me è stato il desiderio di fare un lavoro che desse un feedback di senso più forte che scrivere venti comunicati al giorno. Dopo due mesi, le motivazioni sono altre, ed è allora che cominciano a essere vere». «Vere» vuol dire che ti danno la forza di restare. Anzi, che ti fanno desiderare di restare. Perché è facile dire, da qua, che un cooperante deve saperlo che non va per salvare il mondo, però una volta giù deve essere anche frustrante accumulare sconfitte, sopportare le lungaggini, misurare la propria impotenza. È frustrante soprattutto se la motivazione che ti ha fatto partire è professionale, come per Lucia, Rosalba e Fabrizio. Lucia è partita perché «se scegli di fare il medico, scegli di fare servizio. E fare servizio ai più bisognosi è raggiungere il meglio per il proprio lavoro»: ma si è ritrovata a camminare tre ore al giorno per andare a prendere l?acqua. «Da un punto di vista professionale, una perdita netta: nello stesso tempo avrei visitato 300 bambini. Poi impari a misurare le cose sui bisogni reali delle persone, e la prima cosa di cui quei bambini avevano bisogno non era un medico, ma qualche adulto che stesse in rapporto con loro. Per caso c?ero io». Egoismo «positivo» Rosalba era partita per un motivo esclusivamente professionale, all?interno di un progetto tra università, nemmeno con Avsi. Faceva la psicomotricista in psichiatria infantile e collaborava con l?università di Milano. Nel 1992 l?hanno spedita a Novosibirsk per valutare la fattibilità di un progetto interuniversitario: corsi di formazione di operatori sociali e psicologi. Una sfida, soprattutto nei confronti di quei professoroni che l?avevano mandata là ma che, lei lo sentiva, nel progetto non ci credevano più di tanto. La svolta nelle motivazioni l?ha avuta una sera in un bosco di betulle, con la neve e -28 gradi, arrabbiatissima perché aveva sì imparato a chiedere informazioni in russo, ma non capiva le risposte. «Davo calci a una betulla, urlando che se c?era qualcosa di quella terra che c?entrasse con me, io volevo vederlo e toccarlo». Era la betulla? «No, però è diventata il simbolo del mio modo di pormi. Adesso non cerco più i risultati, ma tento di capire, in tutto quello che faccio, che cosa c?entri con me». È l?egoismo buono, che è molto più che spirito di sopravvivenza. Lo dice bene Fabrizio, partito per la Romania un mese dopo l?esame di Stato come architetto, giusto per sostituire un amico durante le vacanze. Lì si trattava della costruzione di un ospedale per bambini malati di Aids; oggi, in Brasile, di un grande progetto di urbanizzazione che coinvolge circa 130mila persone. «Entrambe le volte sono partito perché era interessante da un punto di vista professionale. A volte hai la tentazione di dire ?adesso faccio l?italiano buono che aiuta i poveri?, ma Avsi non ti lascia spazi per illuderti. La motivazione di fondo è che io in questo modo rispondo a un desiderio di compimento per me, che si realizza nella condivisione con le persone che incontro». Quel piatto che misura la giustizia Sono i famosi cinque punti di Avsi: centralità della persona, partire dal positivo, fare con, sviluppo dei corpi intermedi, partnership. Dal punto di vista operativo forse cambia poco, dicono all?unisono, ma dal punto di vista di idea dello sviluppo è qualcosa di determinante. «Anche se io non mi sono mai posta il problema della missione dal punto di vista della fede, non ci vedo dicotomia ma coincidenza, come per le altre cose della mia vita», dice Lucia. «Lavorare insieme, rispettarsi, accettare i diversi approcci, per esempio è un modo concreto di vivere la fede». Questa cosa per Simone invece è stata determinante. Militante comunista, neolaureato in pedagogia, nel 1996 voleva solo lasciare la Guardia di Finanza. È andato a Tirana, ha trovato una moglie, due figli e la fede. Avsi per lui ha significato anche questo: un cammino di formazione oltre il lavoro e le sue gratificazioni. «Io sono partito con un?esperienza umana lontanissima dalla fede. Per tre anni sono stato in Albania come volontario Avsi senza spartire nulla con le attività del movimento di Comunione e liberazione. Poi ho incontrato Mirella, quella che poi sarebbe diventata mia moglie. Lei era musulmana, e aveva un senso religioso più forte del mio. Abbiamo iniziato insieme un percorso, che si è concluso l?8 dicembre del 2001: tranne l?estrema unzione, gli altri sacramenti li abbiamo ricevuti tutti!». Simone, Lucia, Rosalba, Fabrizio, Edoardo e tutti gli altri: perché restano? Le risposte si mischiano: «perché sono contento così», «il lavoro mi piace», «è la mia vita», «lì si può fumare al ristorante». «Per Nora» e «per Mirella», «per le relazioni con le persone», «perché non è giusto che io ho una via di fuga e i miei collaboratori no». O per un piatto. Di quelli che ci sono nei kit di emergenza distribuiti in Congo. Mille persone in coda, mille kit, mille padelle, mille coperte, 4mila piatti. E una vecchia che la sera bussa alla porta di Edo con un piatto in mano: «Ho visto che nei pacchi degli altri c?erano quattro piatti. Nel mio ce n?erano cinque, vuol dire che qualcuno ne ha trovati solo tre, e sarà disperato. L?ho riportato, così se viene qui, voi potete darglielo». Edo resta per quello.


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