Mondo

Cooperanti, bella gente

Chi sono, cosa fanno, cosa pensano. Nonostante l’incessante campagna denigratoria, sono tantissimi i giovani (e non solo loro) che lavorano o sognano di lavorare nel mondo della cooperazione internazionale. Siamo andati a conoscerli da vicino sul numero di VITA di giugno

di Anna Spena

«Ho 28 anni e sono laureata in Mediazione linguistica e Relazioni internazionali. Lavoro da tre anni come mediatrice. Mi suggerita un tirocinio nell’ambito della cooperazione? Ho vissuto un anno in un Paese arabo, e mi piacerebbe lavorare in questo mondo». E ancora «Ciao parlo francese, italiano, inglese e un po’ di spagnolo. Ho fatto un master in project management per la cooperazione allo sviluppo! Sono stato in Africa per un progetto universitario e sto cercando un modo per tornare: farei qualsiasi cosa pur di stare su un progetto e mettere in pratica ciò che ho studiato. Mi date un consiglio? Ci possiamo incontrare per una chiacchierata?». Questi sono solo alcuni esempi dei messaggi che arrivano alla casella mail di Aoi, associazione delle organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale, la più grande rappresentanza del settore in Italia. «Ne riceviamo a decine», dice Silvia Stilli, portavoce di Aoi. «Nonostante la campagna denigratoria sulle ong c’è grande fermento ed interesse, sia dei giovani — che meno giovani — per il settore della cooperazione». Silvia Stilli ha iniziato fare la cooperante negli anni Ottanta. E nel 1999 è tornata in Italia. La motivazione di chi sceglie di partire? «È la stessa che avevo io 30 anni fa: il bisogno di trasformare un ideale in un’azione». E nei momenti di crisi? «In questo anno e mezzo di attacchi alle ong la motivazione si è rafforzata. Nei momenti duri vie- ne fuori con pienezza, soprattutto nei giovani, che non si fermano alla prima lettura e hanno voglia di scoprire la verità».

Un mondo in fermento
Quello nella cooperazione è un viaggio straordinario e i numeri di chi decide di farne parte sono strabilianti. Il portale Open cooperazione aggrega i dati delle 200 più importanti realtà non profit italiane che operano nel settore della cooperazione allo sviluppo e nelle emergenze umanitarie. Pensate sono 20.372 le persone, uomini, donne, impegnati in progetti di cooperazione internazionale, 2.880 in Italia e 17.492 all’estero, e rispetto al passato le donne sono sempre di più; il dato si attesta attorno al 46%. Calcolando solo il numero dei dipendenti e collaboratori — in Italia e all’estero — della Top Ten stilata dal portale, e in cui compaiono tra gli altri ong come Emergency, Coopi e Avsi, la somma arriva a 15.599 persone che hanno preso parte a 2.400 progetti in tutto il mondo, ma con una concentra- zione maggiore in Kenya, Mozambico ed Etiopia. «L’età media dei cooperanti si è abbassata:», spiega Stilli, «già nei primi anni di università si vuole entra- re in questo mondo. Però si è anche alzata, sempre più spesso professionisti, anche in pensione, vogliono mettere a disposizione il loro know how a servizio dei progetti umanitari e in tantissimi scelgono di partire come volontari». «Ma», sottolinea la portavoce di Aoi, «non pensate di fare gli espatriati per tutta la vita. È importante tornare a casa e mettere a frutto quello che si è imparato».

Perché questo lavoro?
«Perché. Perché vuoi questo lavoro?». È la prima, ovvia e naturale domanda, che ti fanno quando ti presenti a un colloquio. E se ti sei candidato per una posizione in un’organizzazione non governativa, con il desiderio di diventare cooperante, sicuramente a quel perché se ne aggiungerà un altro: «Perché vuoi partire?». «Perché non farlo?» ha risposto Gennaro Giudetti, 28 anni, originario di Taranto quando, dopo la fine della scuola superiore, ha iniziato, con i Caschi Bianchi, il suo percorso. «Volevo fare qualcosa, provare a cambiare da dentro e smetterla di criticare da fuori», racconta. «Prima non lo sapevo, ma se me lo chiedessero adesso direi che sono partito spinto da un senso di giustizia. E questa giustizia, e quell’amore dell’inizio, mi si sono palesati davanti nelle tende dove vivevano i profughi siriani in Libano: se in quelle tende ci fosse tua madre o tuo fratello non ci penseresti due volte ad andare, a fare qualcosa». Giudetti è stato in missione in Albania, in Kenya, e poi in Colombia dove i paramilitari uccidevano i conta- dini nei campi e lui — con le loro mogli — andava a raccogliere i corpi, Palestina, Libano (con l’ong Operazione Colomba ndr). Per due volte ha partecipa- to alle operazioni di salvataggio con Sea Watch nel mar Mediterraneo e al primo corridoio umanitario organizzato dalla Chiesa Valdese e dalla Comunità di Sant’Egidio. In Italia, con l’associazione Papa Giovanni XXIII, al Porto di Reggio Calabria, ha accolto i minori stranieri non accompagnati. Ed ora, con Medici senza Frontiere, in Congo e nella Repubblica Centrafricana, si oc- cupa della parte logistica delle missioni per supportare le attività mediche e creare le condizioni per mettere i progetti in sicurezza. «La mia vita», dice (e sorride ndr), «è piena di sale. È una “vita viva”, ma un po’ complicata. Non è stabile e la tua sfera privata la devi un po’ sacrificare». E la paura? «Quella ce l’abbiamo tutti. Però impariamo a gestirla. Scegliere di fare il cooperate», racconta, «come tutte le scelte della vita ha i suoi pro e i suoi contro. Ma se mi dicessero di tornare indietro, ci tornerei so- lo per rifare tutto».

Perché ho incominciato a fare questo lavoro? Prima non lo sapevo, ma se me lo chiedessero adesso direi che sono partito spinto da un senso di giustizia

Gennaro Giudetti

La storia di Giudetti ci riporta al cuore di questo lavoro dove è la relazione umana che sta alla base del mestiere. Ne è parte integrante e costitutiva da sempre, ma non basta. Negli ultimi 20 anni la cooperazione — pur avendo mantenuto quel suo desiderio di “esserci per gli altri” è cambiata, si è evoluta, trasformata, strutturata in una vera professione dove la parola d’ordine è formazione.

Ma quale assistenzialismo…
«Ogni anno», spiega Cinzia Giudici, presidente di Cosv, coordinamento delle Organizzazioni per il servizio volontario, «mediamente noi registriamo 6.500 nuove partenze». Ma prima di partire è necessario cambiare prospettiva: «Diciamolo con chiarezza. Non si può partire pensando di avere in mano il sapere. Di andare in un altro Paese ed “essere utili” in un modo che noi riteniamo giusto. Quello che ci viene richiesto è un confronto continuo con le popolazioni locali, loro ci stanno dicendo: “Noi sappiamo già quelle che sono le soluzioni concrete ai nostri problemi, ma abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti a metterle in atto”. Se prima si andava per “aiutare” adesso invece si va per dare gli strumenti al personale locale. E questo per tutti i cooperanti e le ong è un passaggio formidabile. Dobbiamo essere consapevoli che ci stiamo inserendo in un contesto che ha il suo percorso, e noi siamo lì per agevolare quel percorso e non per sostituirlo con il nostro».

Manager, fatevi avanti!
«I cooperanti», dice Stefania Raschiatore, responsabile reclutamento profili specialistici di Medici senza Frontiere, ong attiva in 70 Paesi, «si dividono in due grandi categorie: i professionisti dell’umanitario, e i tecnici, come archi- tetti, ingegneri, educatori, insieme al personale medico e paramedico che mettono a disposizione il loro sapere a servizio di un progetto umanitario». In passato la maggioranza delle ong cercava tecnici specifici per il progetto da sviluppare; oggi il trend si è capovolto e sempre più organizzazioni non governative sono alla ricerca di manager. Stando ai dati raccolti dal portale info-cooperazione nel 2018, 108 organizzazioni su 110 hanno cercato 800 figure da inserire in 68 nazioni diverse. 306 vacancy erano destinate alla figura del project manager: impegnato sia sul campo sia nella sede centrale e ha il compito di gestire tutti i partenariati, le relazioni istituzionali, il ciclo di progetto e le équipe locali…


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Nella foto di copertina il cooperante Gennaro Giudetti nel campo profughi di Tel Abbas, Libano del Nord

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