Violenza di genere

Coop sociali: c’è posto per loro nei centri antiviolenza?

Il prossimo anno dovrebbe entrare in vigore la nuova Intesa Stato-Regioni riguardo ai centri antiviolenza. Fa discutere il primo articolo, secondo il quale i centri dovrebbero essere gestiti solo da realtà che si dedichino esclusivamente a questo

di Veronica Rossi

Secondo l’Istat, il 31,5% delle 16-70enni in Italia ha subito violenza nel corso della sua vita. Quasi un terzo. Sono numeri enormi e cercare di azzerarli dovrebbe essere una priorità del nostro Paese. Ma per farlo è necessario che ci siano sui territori – su tutti i territori – centri antiviolenza che possano informare, prevenire e accogliere le vittime. Dovrebbero essere luoghi sicuri, in cui operi personale specializzato, scevro da giudizi e incline all’ascolto. Di fatto, come spesso accade, i centri sono diffusi a macchia di leopardo sul territorio nazionale, con alcune Regioni virtuose e altre meno. In più, la regolamentazione attualmente in vigore risale al 2014. Nel settembre del 2022 c’è stata un’Intesa Stato-Regioni è intervenuta per ammodernarne le regole di gestione, la cui entrata in vigore è stata prorogata alla metà del prossimo anno. Intanto, però, si è scatenato un dibattito intorno alla nuova Intesa: nel primo articolo, in particolare, si specifica che le realtà a cui dare in gestione i centri devono avere come attività prevalente il contrasto alla violenza di genere. Ora, invece, ci sono anche cooperative multiservizi ed enti territoriali a occuparsene. In molti – in primis le associazioni di categoria delle cooperative sociali – chiedono la modifica di questo articolo; altri, come le realtà femministe, lo difendono.

«C’è una grande disomogeneità a livello nazionale», dice Mariangela Zanni, consigliera nazionale di Di.re – Donne in rete contro la violenza. «Quando nel 2014 il Governo ha cominciato a rendere più strutturali gli interventi sul fenomeno della violenza, non c’è stata un’azione per rendere la risposta capillare per tutte le donne in tutti i territori. I centri hanno le caratteristiche più disparate: un terzo sono storici, nati alla fine degli anni ‘80 e nei primi anni ‘90 dal movimenti femministi, un terzo sono nati dopo l 2013 e sono gestiti da cooperative multiservizi o enti religiosi che prima si occupavano di altro e un terzo sono gestiti da enti locali, che spesso li danno in appalto a altri enti che non hanno i requisiti o si occupano anche di molte altre situazioni». Secondo Di.re un tempo le associazioni che gestivano i centri antiviolenza si basavano su una lettura del fenomeno sociale della violenza legata anche alle problematiche del patriarcato; ora – dicono – si rischia una deriva verso dei semplici servizi socio-assistenziali, dove l’empowerment della donna viene sacrificato rispetto ad altre necessità e bisogni, legati all’efficienza della struttura e alla riduzione dei costi. Addirittura, in alcune occasioni sarebbero stati dati in gestione dei centri a realtà che avevano solo organizzato alcuni eventi di contrasto alla violenza in ricorrenze specifiche, come il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne.

Di avviso completamente diverso è Eleonora Vanni, presidente di Legacoopsociali. «Non ci si improvvisa a gestire un centro antiviolenza», dice. «La cooperazione sociale che opera in questo ambito non si è improvvisata e chiede di essere riconosciuta. Noi sosteniamo assolutamente i parametri di qualità contenuti nell’Intesa e li rispettiamo con personale dedicato e qualificato, perché servono specifiche competenze. Chiediamo che le cooperative che hanno esperienza e gestiscono servizi di questo tipo, anche in rapporto con le pubbliche amministrazioni, con le Regioni e i Comuni non siano espulse dal circuito». Secondo Legacoop sociali, dei criteri troppo limitanti per gli enti gestori porterebbero a una perdita di competenze ed esperienza, ma soprattutto a un impoverimento dei servizi e delle opportunità per le donne vittime di violenza. La valutazione della possibilità o meno di una realtà di gestire un centro dovrebbe essere legata a una rilevazione sulla qualità dei servizi offerti, sul numero di donne aiutate e sui posti disponibili.

«L’Italia non ha ancora raggiunto i parametri previsti dalla convenzione di Istanbul», conclude Vanni. «Ci chiediamo perché debbano essere escluse delle cooperative che da anni gestiscono questi servizi, che magari sostengono con le loro altre attività e che quindi riescono a pagare regolarmente il personale, senza basarsi solo sul volontariato: le professionalità vanno correttamente retribuite».

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