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Coop, arriva lo statuto
I soci lavoratori delle cooperative sono autonomi o subordinati? E per loro può valere un contratto nazionale? Per mettere fine alla querelle, Prodi ha nominato una commissione di tecnici, che dovrà p
D opo Onlus e Welfare, tocca alle coop. C?è ancora una volta una commissione nel destino del non profit italiano. E c?è ancora un volta il professor Zamagni a presiederla. Il compito affidato questa volta all?economista bolognese è quello di coordinare un gruppo di esperti insediato sessanta giorni or sono presso la presidenza del Consiglio, con il compito di cominciare a preparare una riforma complessiva della cooperazione, voluta da Prodi. Oltre a Zamagni, ne fanno parte anche il professor Borzaga (dell?università di Trento) e Bonfante (università di Torino).
L?obbiettivo è ambizioso: scrivere lo ?statuto del lavoratore sociale?, testo normativo che avrà il fine di assicurare ai lavoratori del non profit percorsi contrattuali più certi e maggiori garanzie. La data della consegna è fissata tra poco, il 31 marzo, ma già dalle prime riunioni è apparso chiaro che non sarà un compito facile. Il nodo che la commissione dovrà sciogliere è quello dei soci lavoratori delle cooperative sociali. Ovvero di quei lavoratori che prestano la propria opera, partecipando però nello stesso tempo all?attività d?impresa. Questi lavoratori vanno considerati subordinati, autonomi, oppure una via di mezzo? La querelle ha impegnato per un anno e mezzo di trattative i sindacati da un lato e le centrali cooperative, dall?altro. Ma senza esito.
Per questo la commissione del professor Zamagni ha un taglio eminentemente tecnico, non contenendo al suo interno né rappresentanti dei sindacati, né delle cooperative. Ciò nonostante le consultazioni con i due contendenti sono già cominciate (l?ultima venerdì 20 marzo) e si prevede che continueranno. La commissione dovrà redigere un testo, che il governo dovrebbe far proprio e tramutarlo in proposta di legge. Un iter lungo dunque, e ancora agli inizi.
«Le posizioni», spiega Mauro Alboresi, che ha condotto le trattative per la Cgil, «sono molto chiare: le centrali cooperative non sottolineano a nostro avviso a sufficienza la condizione di prestatore d?opera del socio lavoratore. Questo causa un difetto di rappresentatività della categoria, e emargina l?importanza, a nostro avviso centrale, dei contratti nazionali».
Ovviamente diversa è l?ottica delle cooperative, che hanno espresso una posizione unitaria. Spiega Livia Consolo, presidente del Cgm: «Ciò che bisogna verificare è l?esistenza o meno di poteri decisionali effettivi del socio lavoratore, e dunque di una democraticità nella gestione. Se questi presupposti esistono il socio lavoratore va considerato come un imprenditore. Certo, è giusto che la sua opera venga retribuita equamente, e i contratti nazionali costituiscono il parametro migliore per stabilire il compenso. Va fatta salva però la libertà del socio di derogarvi in parte, nella logica d?impresa a cui partecipa». E poi la Consolo lancia un?accusa: «Se questa democraticità non c?è, se i poteri decisionali non vengono garantiti, la qualifica di ?socio lavoratore? diventa una presa in giro».
Fabrizio Ghisio, di Federsolidarietà, si augura che «dal lavoro della commissione possa nascere la figura di lavoratore ?associato?, non dovendo necessariamente tenere separati padroni e lavoratori».
Così il lavoro sociale
Cooperative sociali 3.500
Lavoratori sociali 75.000
Soci 120.000
Volontari 10.000
Utenti 400.000
Fatturato consolidato (in miliardi) 2.500
Fondi non spesi? Diamoli al non profit
È possibile utilizzare i fondi strutturali per combattere l?esclusione sociale? Sì, se vengono aperti al non profit. È questa la conclusione del seminario tenutosi a Roma, organizzato dal Cilap (Coordinamento italiano lotta povertà) e dal Movimento federativo democratico, con l?adesione del Cnca e la partecipazione, tra gli altri, della ministra Livia Turco, Carlo Borgomeo (presidente della società per l?Imprenditorialità Giovanile) e Lisa Pavan Woolfe, capo divisione Fse per l?Italia. Impietosa l?analisi: il fondi strutturali europei sono di difficile accesso per i soggetti non profit, e dunque non vengono impiegati per combattere l?esclusione sociale. Le cause più ricorrenti sono le solite: la difficoltà di accesso alle informazioni, il sistema dei controlli, che sono esclusivamente formali e non tengono conto della qualità dei progetti realizzati. E poi l?annosa questione dell?accesso al credito: i fondi infatti vengono attribuiti solo se l?ente titolare ottiene una fidejussione, che a sua volta l?istituto di credito fornisce solo in presenza di determinate garanzie, impossibili da ottenere per le piccole associazioni civiche. La proposta più interessante riguarda proprio quest?ultima difficoltà: risolvibile grazie alla costituzione di un ?Fondo di garanzia? (citato nel pacchetto del ministro Treu) per i soggetti attuatori dei progetti che consentirebbe di facilitare le procedure, senza andare a intaccare il principio di responsabilità.
E poi: l?istituzione di un monitoraggio nazionale sull?utilizzo dei fondi europei, con il coinvolgimento, tra gli altri soggetti istituzionali, anche di quelli non profit e degli istituti di credito; la creazione di una banca dati dove sono inseriti i progetti riusciti che altre associazioni possono imitare. E infine un?anagrafe particolare: ?l?anagrafe dei quesiti?. Dove il ministero risponde una volta per tutte ai dubbi più ricorrenti.Fondi non spesi? Diamoli al non profit
È possibile utilizzare i fondi strutturali per combattere l?esclusione sociale? Sì, se vengono aperti al non profit. È questa la conclusione del seminario tenutosi a Roma, organizzato dal Cilap (Coordinamento italiano lotta povertà) e dal Movimento federativo democratico, con l?adesione del Cnca e la partecipazione, tra gli altri, della ministra Livia Turco, Carlo Borgomeo (presidente della società per l?Imprenditorialità Giovanile) e Lisa Pavan Woolfe, capo divisione Fse per l?Italia. Impietosa l?analisi: il fondi strutturali europei sono di difficile accesso per i soggetti non profit, e dunque non vengono impiegati per combattere l?esclusione sociale. Le cause più ricorrenti sono le solite: la difficoltà di accesso alle informazioni, il sistema dei controlli, che sono esclusivamente formali e non tengono conto della qualità dei progetti realizzati. E poi l?annosa questione dell?accesso al credito: i fondi infatti vengono attribuiti solo se l?ente titolare ottiene una fidejussione, che a sua volta l?istituto di credito fornisce solo in presenza di determinate garanzie, impossibili da ottenere per le piccole associazioni civiche. La proposta più interessante riguarda proprio quest?ultima difficoltà: risolvibile grazie alla costituzione di un ?Fondo di garanzia? (citato nel pacchetto del ministro Treu) per i soggetti attuatori dei progetti che consentirebbe di facilitare le procedure, senza andare a intaccare il principio di responsabilità.
E poi: l?istituzione di un monitoraggio nazionale sull?utilizzo dei fondi europei, con il coinvolgimento, tra gli altri soggetti istituzionali, anche di quelli non profit e degli istituti di credito; la creazione di una banca dati dove sono inseriti i progetti riusciti che altre associazioni possono imitare. E infine un?anagrafe particolare: ?l?anagrafe dei quesiti?. Dove il ministero risponde una volta per tutte ai dubbi più ricorrenti.
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