Volontariato

Contro le banalizzazioni. Un ragionamento su Costituzione, referendum, pace e guerra

di Pasquale Pugliese

Mentre la semplificazione mediatica banalizza le questioni oggetto del referendum costituzionale, facendolo passare per un plebiscito sul presidente del consiglio o, peggio, per uno scontro generazionale, propongo un ragionamento su alcuni elementi di fondo in ballo nella scelta del 4 dicembre. Sono ragioni di linguaggio, di metodo, di merito e di legittimità. Sono ragioni complesse che – a mio avviso- meritano attenzione per esercitare con responsabilità il diritto e il dovere di esprimersi nel referendum costituzionale. Consapevolmente.

Il linguaggio

In un convegno promosso dal Senato della Repubblica, alcuni anni fa, su Il linguaggio della Costituzione il linguista Tullio De Mauroraccontava della lingua scelta da coloro che scrissero la Costituzione italiana. Alla base della scelta linguistica ci furono due fattori: le condizioni culturali dell’Italia del tempo – “quando la Costituzione è stata scritta, tra il 1946 e la fine del 1947, le capacità di comprensione del testo costituzionale della popolazione italiana erano pessime, perché l’Italia prefascista e l’Italia fascista avevano lasciato in eredità alla Repubblica una massa sterminata di persone senza istruzione scolastica, che non avevano completato la scuola elementare, e, dentro questi, di analfabeti” – e poi la qualità umana dei Costituenti – “il processo di formazione di queste persone che era il frutto di una selezione durissima (le carceri, l’esilio, il riparo di Santa madre chiesa, in qualche caso) nella resistenza al fascismo, e poi nella lunga resistenza, anche armata, al fascismo e al nazismo. Era personale di alta qualità umana a raccogliere quelle esigenze”. Per queste ragioni i Costituenti scelsero consapevolmente una lingua che poteva essere compresa da tutti, un linguaggio semplice, efficace, inequivocabile: “non solo scelgono le parole più trasparenti, ma scelgono di scrivere frasi esemplarmente brevi. La Costituzione italiana è scritta con una media esemplare di un po’ meno di 20 parole per frase. Questi due elementi danno alla nostra Costituzione un grado altissimo di leggibilità”. Un’estetica del linguaggio che corrisponde ad un’etica della comprensibilità: tutti i cittadini avrebbero dovuto comprendere i principi, i diritti, i doveri e l’organizzazione dello Stato, ossia il funzionamento della democrazia, come stabilito dalla Costituzione.
L’attuale riforma costituzionale costruisce invece articoli monstrum di lunghezza abnorme (il nuovo articolo 70 è composto da 432 parole), con decine di rimandi interni, che rendono il linguaggio oscuro e incomprensibile ai cittadini. La Costituzione, da testo esemplare alla portata di tutti, viene trattata come un qualsiasi “decreto milleproroghe”, comprensibile (forse) ai soli addetti ai lavori, in un Paese nel quale, oggi – secondo i dati OSCE – il 70% della popolazione è incapace di comprendere il significato di un testo complesso.

Il metodo

Anch’io – come il Movimento Nonviolento che ha diffuso un proprio documento sul referendum costituzionale – non ritengo immutabile la Costituzione italiana, ma sono convinto che diversi aspetti possano essere migliorati, per esempio, in un’ottica di maggiore apertura federalista, disarmista, ecologista, nonviolenta, aggiungendo ulteriori strumenti di democrazia partecipativa.
Tuttavia, la Costituzione vigente è stata scritta da un’Assemblea costituente eletta con metodo rigorosamente proporzionale, in modo che tutte le componenti politiche – espressione della società civile – potessero essere rappresentate. L’unica esclusione fu rivolta al partito fascista, che aveva soppresso la democrazia e trascinato il Paese nella tragedia della guerra. Tutte le culture politiche democratiche contribuirono attivamente alla costruzione della Carta costituzionale del 1948, cercando punti di equilibrio tra le diverse sensibilità, in un’ottica inclusiva, perché quella che si andava a definire era la Casa di tutti gli italiani, a prescindere dai diversi orientamenti politici. Per comprendere la tensione ideale che sorreggeva gli uomini e le donne che parteciparono alla stesura della Costituzione è utile ricordare quanto raccontava Teresa Mattei, la più giovane tra le madri costituenti: “Al momento della votazione per l’art 11, cioè quello contro la guerra – “L’Italia ripudia la guerra”, è stato scelto il termine più deciso e forte – tutte le donne che erano lì, ventuno, siamo scese nell’emiciclo e ci siamo strette le mani tutte insieme, eravamo una catena, e gli uomini hanno applaudito”.
La riforma attuale, al contrario, è stata fortissimamente voluta dal governo in carica, anzi dalla maggioranza del partito del Presidente del Consiglio, contro tutte le opposizioni – parlamentari e non – contravvenendo anche al principio della separazione dei poteri, così enunciato dal padre costituente Piero Calamandrei, fin dal 1947: “Quando l’Assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti; estraneo del pari deve rimanere il governo alla formulazione del progetto, se si vuole che questo scaturisca interamente dalla libera determinazione dell’Assemblea sovrana “.
Infine, prima di essere modificata, la Costituzione andrebbe pienamente rispettata, attuata e sviluppata in tutte le sue potenzialità. Penso in particolare all’articolo 11, sul ripudio della guerra, e all’articolo 52, sull’istituzione di una Difesa che contempli anche forme civili, non armate e nonviolente. Invece, negli ultimi 25 anni nei quali il nostro Paese ha partecipato direttamente e indirettamente a innumerevoli imprese belliche, non solo la Costituzione non è stata attuata – attraverso la costruzione dei “mezzi” alternativi alla guerra per la “risoluzione delle controversie internazionali” – ma è stata più volte ripudiata (anziché la guerra) dai governi che si sono succeduti. Compreso l’attuale.

Il merito

Facendo parte di un Movimento fondato da personaggi che sono stai messi in galera dalle istituzioni italiane – Aldo Capitini da quelli fasciste perché oppositore, Pietro Pinna da quelle repubblicane perché obiettore di coscienza al servizio militare – non ho l’idolatria istituzionale, neanche di quella parlamentare, anche perché – come scrive il Movimento Nonviolento – “nella nostra esperienza abbiamo verificato che molta della migliore politica si svolge nei movimenti che crescono dal basso e che i cambiamenti reali avvengano all’esterno delle aule istituzionali”. Tuttavia, ho assoluto rispetto per le istituzioni repubblicane che sono espressione della sovranità popolare, attraverso le forme della partecipazione e della rappresentanza, e penso che occorra maggiore apertura delle sedi parlamentari, non una loro ulteriore chiusura.
La cosiddetta “riforma costituzionale” ha, invece, tra i suoi obiettivi la riduzione del numero dei senatori – cioè dei rappresentanti dei cittadini – e la sottrazione di una camera parlamentare, il Senato della Repubblica, all’elezione diretta da parte dei cittadini, consegnandola a un manipolo di politici nominati dai consigli regionali, che già rivestono un ruolo di rappresentanza politica (consiglieri regionali e sindaci). “E’ l’introduzione” – scrive il Movimento Nonviolento – “anziché di un elemento di democrazia diretta, come noi auspichiamo, di una superfetazione di ceto politico, che non risponde più direttamente ai cittadini elettori. Inoltre la diminuzione del numero di eletti direttamente dal popolo di fatto toglie rappresentanza e quindi potere agli elettori, scavando un ulteriore solco tra corpo elettorale e istituzioni democratiche”.
Perché questa sostanziale modifica nell’equilibrio degli organi dello Stato e nella restrizione della sovranità popolare? Per velocizzare l’iter delle leggi, dicono i promotori della riforma, e per realizzare un risparmio sui costi della politica. Sulla prima motivazione è stato ampiamente dimostrato, per esempio da Zagrelbesky e Pallante, che “dal punto di vista quantitativo, la produzione legislativa del Parlamento italiano è in linea con quella dei Parlamenti dei più grandi Paesi europei” – le leggi che non vanno avanti sono fermate dai disaccordi tra le forze politiche – semmai il problema è di fare buone leggi, ma questo non è un problema che riguarda le istituzioni, ma chi le governa. Sui costi della politica, la Ragioneria generale dello Stato ha fatto sapere che il risparmio effettivo della riforma del Senato è di circa 50 milioni. Ebbene, i dati presentati in anteprima dall’Osservatorio italiano sulle spese militari agli “Stati generali della difesa civile non armata e nonviolenta” di Trento del 4 e 5 novembre, dimostrano che il governo italiano spende 23 miliardi di euro all’anno in spese per la guerra, che divisi per i giorni dell’anno fanno 65 milioni al giorno. Dunque il governo stravolge la Costituzione della Repubblica per risparmiare 50 milioni di euro all’anno, mentre spende 65 milioni al giorno per preparare la guerra in spregio alla stessa Costituzione.
Al nuovo Senato saranno sottratti diversi importanti compiti costituzionali – come dare la fiducia al governo – ma non tutti. Anzi i futuri senatori a part time potranno/dovranno intervenire su molti temi, attraverso un complesso groviglio di tempistiche differenziate (e molti costituzionalisti si chiedono come i consiglieri regionali e i sindaci senatori potranno esercitare la funzione primaria per la quale saranno stati eletti dai cittadini, dovendo – al contempo – rincorrere a Roma tutte le complicate scadenze per stare dietro all’attività legislativa del Senato). Eppure, tra i temi sottratti al Senato c’è la responsabilità sulla più grave delle decisioni che il parlamento può assumere: la possibilità di “dichiarare guerra”. La dichiarazione di guerra, normata come extrema ratio – all’interno di una Costituzione che nei “principi fondamentali” ripudia la guerra – è attribuita, dall’art. 78 della Carta, ad entrambe le Camere. La riforma dell’articolo 78 attribuisce questa possibilità alla sola Camera dei deputati “a maggioranza assoluta, conferendo al governo i poteri necessari”. Poiché la Camera dei deputati sarà eletta con una legge elettorale, il cosiddetto italicum – elaborata, in parallelo, dallo stesso governo e con le stesse modalità, che ha elaborato la riforma costituzionale – che consente alla più numerosa delle minoranze politiche di diventare, appunto, “maggioranza assoluta” alla Camera dei deputati e di guidare automaticamente il governo, ecco che la dichiarazione di guerra potrà essere decisa da una minoranza politica rispondente direttamente al governo. Con un’ulteriore gravissima conseguenza istituzionale, perché la Costituzione prevede (art. 60 Cost) che lo “stato di guerra” è l’unica condizione per la quale possa essere prorogata la durata delle Camere, e dunque rinviate le elezioni… Un pericolosissimo stravolgimento commentato anche, lucidamente, dal generale Fabio Mini: “non posso condividere una riforma che sottrae al Parlamento la decisione sulla più drammatica evenienza di uno Stato: la dichiarazione di guerra. La norma proposta indica infatti nel Governo, attraverso la sua ovvia e artificiosa maggioranza monocamerale, il responsabile di tale decisione. E’ vero che sul piano pratico la cosa può sembrare ininfluente: nessuno più dichiara apertamente la guerra, ad eccezione degli Stati Uniti che ormai scendono in guerra per ogni cosa. Tuttavia, se la norma che equipara la dichiarazione di guerra a qualsiasi altro atto amministrativo può sembrare ininfluente sul piano pratico, non lo è affatto sul piano istituzionale e della filosofia del diritto. In questo caso, l’abolizione del bicameralismo perfetto è la chiara manifestazione della volontà di banalizzare il ruolo delle istituzioni a partire dall’atto più drammatico delle loro funzioni: la deliberazione sulla guerra. Di fatto, il nuovo Parlamento e lo stesso Governo cessano di essere organi legislativi rappresentativi di tutto il Paese e perdono la qualità fondamentale per autorizzare la guerra in nome del popolo italiano”

La legittimità

La riforma costituzionale oggetto del referendum è stata elaborata da un Parlamento eletto con il più antidemocratico e discriminatorio dei sistemi elettorali che la storia della Repubblica registri, l’unico dichiarato incostituzionale dalla Corte costituzionale.
“La democrazia è una cosa seria” – scrive ancora il Movimento Nonviolento – “e dunque riteniamo che un Parlamento eletto con una legge elettorale incostituzionale – perché antidemocratica – avrebbe dovuto trovare velocemente un accordo su una nuova legge elettorale rispettosa delle indicazioni offerte dalla Corte costituzionale, con la quale andare, il più presto possibile, a nuove elezioni: è un principio basilare di democrazia. Un Parlamento azzoppato, costituito prevalentemente da nominati, non può fare la più importante “riforma costituzionale” della storia della Repubblica italiana: è un principio di legittimità”. In questo senso, molti autorevoli costituzionalisti si sono ampiamente espressi.
Ma accanto a questa evidente illegittimità politica esiste un altrettanto grave problema di legittimità morale. Il governo che ha voluto la riforma costituzionale “Renzi-Boschi” è lo stesso che è stato ripetutamente denunciato presso la magistratura dalla Rete italiana disarmo, perché consente la fornitura di armi prodotte in Italia all’Arabia saudita, che le scarica sulla popolazione civile dello Yemen. E’ una palese violazione delle legge 185/90 sul commercio delle armi – che, in coerenza con la Costituzione italiana, vieta il commercio di armi verso “Paesi in stato di conflitto armato” – in merito alla quale sono aperte due indagini, dalla Procura di Brescia e dalla Procura di Cagliari. In ultimo, il governo che vuole riformare la Costituzione italiana è lo stesso che ha dato mandato al rappresentante italiano presso le Nazioni Unite, lo scorso 27 ottobre, di votare contro l’avvio delle procedure per la realizzazione del “Trattato internazionale per la messa al bando delle armi nucleari”. Una vergogna.

Ecco – fuori dalle semplificazioni banalizzanti – mi pare che ci siano sufficienti ragioni di linguaggio, di metodo, di merito, di legittimità – politica e morale – per votare No al referendum costituzionale del 4 dicembre.

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