Non profit
Contro la globalizzazione servono più le parole che i muscoli
"No logo", e' questo il titolo del libro scritto da Naomi Klein, diventato per molti il manifesto antiglobalizzazione, e su cui riflette Marco Revelli
La recente tournée di Naomi Klein in Italia ha portato sulle pagine dei principali giornali le tesi del suo No logo, divenuto, per molti versi, il manifesto culturale dei movimenti anti-globalizzazione o, meglio, di quella ormai solida, diffusa e attiva rete di gruppi che si muovono dentro la globalizzazione contro i “nuovi” poteri globali. Compirebbe però un grave errore chi, ritenendo sufficienti le pur interessanti ed efficaci interviste rilasciate dall’autrice, pensasse di poter tralasciare la lettura del suo corposissimo volume (450 pagine di recente tradotte da Baldini e Castoldi), perché le tesi in esso proposte, oltre a essere innovative e forti, sono sostenute da una robusta documentazione, con un’infinità di esempi, casi, episodi, testimonianze, frutto quasi sempre di una ricerca diretta compiuta dall’autrice “in giro per il mondo” (worldwide, come si dice in gergo globalista), tra il Canada, gli Stati Uniti, l’estremo oriente asiatico, il Sudafrica, le periferie londinesi e quelle di Manila (i «luoghi senza marca in cui si producono prodotti di marca»), lungo le filiere dei processi di delocalizzazione delle corporations e lungo la rete dei movimenti antagonistici che le incalzano da presso.
La prima di queste tesi è semplice ed efficace: ci dice che ormai le grandi transnazionali a dimensione globale come la Nike, la Shell, McDonald’s, hanno occupato a tutti gli effetti il posto che un tempo fu degli stati nazionali: sono i nuovi soggetti del potere. Rappresentano la forma della politica quale un tempo fu rappresentata dai regni, dalle corti, dalle istituzioni nazionali, dai poteri sovrani. Come quelli, occupano lo spazio (segnandolo con i propri marchi anziché con bandiere), sottomettono gli uomini, regolano (e consumano) i territori. Contrastare quel loro potere, contendere loro territorio (fisico e mentale), delegittimarne le pretese di dettar legge e imporre modi di vita, è l’equivalente contemporaneo dell’antica (il che significa “di ieri”) lotta politica. La forma adeguata di una resistenza che riguarda non aspetti marginali, ma l’essenza della nostra vita associata. Il che qualifica i movimenti che – con epicentro Seattle, ma con una presenza da corpo dell’iceberg ben più estesa – si sono andati qualificando come oppositori sistematici di quelle “potenze”, non come esotici e coloriti dilettanti di un’esperienza marginale ma, al contrario, come la punta avanzata di una nuova, inedita e destinata a diffondersi politicità ribelle. Quelli che “hanno capito” la portata della trasformazione in corso, e si sono collocati sul versante innovativo dell’azione collettiva, lasciandosi alle spalle i ferri arrugginiti di una politica statual-nazionale isterilita.
La seconda tesi è forse ancor più radicale: dice che il potere globale di quelle “grandi potenze” economiche e finanziarie non è imbattibile né irresistibile. Che esso trova la propria debolezza nella sua stessa forza, a condizione che chi lo contrasta sappia cogliere il punto debole. Sappia decodificarne il discorso, anzi, sappia rovesciargli contro il suo stesso linguaggio. La sua dimensione e l’ordine del discorso che i produttori globali di merci vanno facendo. Essi vivono della propria immagine. Hanno fatto della propria immagine la propria realtà. L’unica realtà che conti: quella che permette loro di dilagare per il mondo attraverso il web, di occupare gli spazi mentali, lasciando ad altri il vile manufacturing, la manipolazione delle cose, la produzione materiale. E come tali si sono consegnati a chi quell’immagine può a sua volta manipolare, disgelandone la realtà, rivelandone i retroscena, mostrandone gli abissi di sfruttamento e di violazione dei diritti che sta dietro la superficie patinata. L’onnipresenza del loro “logo” offre ai ribelli un linguaggio universale attraverso cui veicolare il proprio discorso dissacrante. E rovesciare l’ordine dei poteri.
È bene prenderne atto. Imparare a usare le parole anziché i muscoli, lavorare sui simboli anziché sulla forza, sostituire il conflitto sui valori a quello sui poteri o per il potere. Su questo terreno tra Davide e Golia la partita torna tutta da giocare.
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