Famiglia
Contro il vuoto educativo
Abbiamo bisogno di superare una concezione privatistica del disagio a vantaggio di una reale socializzazione in grado di accogliere ombre e domande di senso.
Se semo divertiti. Queste parole, pronunciate ai suoi genitori dal giovane coinvolto la notte di Capodanno nello stupro di una giovane ragazza, rappresentano in forma incontrovertibile la pochezza di un vuoto educativo. Parole colpevolmente accolte dai genitori disposti a non levare alcun biasimo per la gravità del fatto oggettivo, ma solo a raccogliere la confessione di un crimine come se nulla fosse accaduto, a dispetto di una certa partecipazione all’ignominia del branco. Le trascrizioni di alcuni stralci del dialogo tra i figli implicati nella triste vicenda e i genitori rivelano un dramma ancor più grande, su un palco con nuda scenografia si rappresenta un appiattimento generazionale nel quale quel modo di agire, di gestire la sessualità, di perpetrare un assurdo atto di violenza, diventa un fatto "ordinario", come di pura normalità. Eppure su quel palco è andata in scena una rappresentazione disdicevole di un vuoto di senso in grado di non dare forma ai corsari comportamenti, sotto il segno di una follia collettiva, nella quale la categoria di divertimento assume i contorni del reale intorpidimento della coscienza ovvero della negazione etica del valore della vita.
Anche in questa vicenda vi è il ricorso alle droghe, all’alcol che annega ogni visione del futuro sospingendo gli autori della vicenda verso viaggi di allucinazione alla ricerca di uno stato ingannevole di beatitudine. E a noi adulti tocca restare incredibilmente immobili, addirittura incapaci di provare ad immaginare alcuna progettualità a forte impatto in grado di riaprire una partita educativa complessa, che non può non essere “pubblica” e quindi efficacemente espressiva di tutta la comunità.
La brutta storia di violenza rimanda alla necessità di esperire luoghi consistenti e forme di socialità rassicuranti che sembrano venir meno in una dimensione sociale attuale, che non esito a definire di “energia pura senza forma”. Abbiamo bisogno di superare una concezione privatistica del disagio a vantaggio di una reale socializzazione in grado di accogliere ombre e domande di senso. Avvertiamo l’urgente bisogno di arginare, a tutti i livelli di responsabilità e competenza, quel vuoto programmatico che alimenta il galoppante disagio giovanile.
In quella serata di ordinaria follia si inseriscono tematiche sociali inevase che interpellano un mondo adulto, sempre più in panchina, ogni attore sociale abilitato alla costruzione di un “simbolico” capace di mediare pensieri negativi che sovente sfociano in forme di violenza estrema e cieca e anche in autolesionismo. Il rapporto tra generazioni appare evanescente e improbabile. Da un’adultità non complice possiamo provare ad accogliere a braccia aperte le loro ombre. Se non c’è la prospettiva di poter reperire un senso che giustifichi tutta la fatica che si fa per vivere – a giusta ragione come afferma Galimberti – se questo senso non si dà, se non c’è neppure la prospettiva di poterlo reperire, se i giorni si succedono solo per distribuire insensatezza e dosi massicce di insignificanza, allora ci si tuffa nella ricerca di quell’anestetico capace di renderci insensibili alla vita.
La cura è una manifestazione della volontà di educare. È da un suo investimento che dipende il futuro dei nostri giovani. Decisamente la posta in gioco è alta. Si rivelano importanti le decisioni tempestive, le iniziative coraggiose e responsabili. Caso contrario, inevitabilmente a riprodursi sarà solo il deserto emotivo dei nostri ragazzi nella fregola di mantenere la propria identità anche a scapito del buon senso e del sano equilibrio mentale. Sappiamo bene come il propagarsi di un sentimento di precarietà inneschi atti inconsci, conflittualità e mutazioni di regole valoriali che rendono irrimediabilmente deboli e sfrangiati i nostri giovani che pure anelanti si muovono alla ricerca disperata di radici, parentela, amore e amicizia mentre sprofondano nella apatia e nell’indifferenza divenute improvvidamente trincee della propria identità.
In apertura photo by MChe Lee on Unsplash
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