L’intervista a Boeri pubblicata qualche giorno fa lascia l’amaro in bocca. Il famoso architetto recentemente defenestrato dalla giunta Pisapia analizza con la consueta lucidità i problemi della metropoli milanese, soffermandosi in particolare sulla questione abitativa e, in specifico, sul riutilizzo dell’enorme patrimonio immobiliare pubblico e privato che giace dismesso o sottoutilizzato. Il disagio deriva dal fatto che le analisi e pure le soluzioni sono ormai ben conosciute, ma non si riescono a mettere in atto, logorando così una politica – e le annesse iniziative – prima ancora che abbia modo di mettersi alla prova. Non sto neanche a nominare i molti soggetti che, ormai da tempo, si stanno impegnando per mappare, gestire e finanziare la riattivazione di beni immobiliari per trasformarli nei mitici “community asset” come avviene nel Regno Unito. Anzi, guardare a esperienza estere che appaiono così distanti – in termini di opportunità e di innovazione – si rischia di accentuare il logorio.
La tensione tra opportunità che appaiono a portata di mano ma che non si riescono a cogliere, a meno di non finire nel ristretto novero delle “best practice”, è tale da spingere a percorrere scorciatoie sul crinale della legalità. Qualche tempo fa sul sito di Repubblica è apparso un intervento di Oscar Farinetti, fondatore di Eataly, dove con grande nonchalance dichiarava di aver aperto alcuni dei suoi negozi senza attendere l’autorizzazione pubblica che non arrivava mai e invitando poi i sindaci all’inaugurazione. “Dobbiamo prenderci qualche avviso di garanzia e avviare una rivoluzione”: a dirlo non è un qualche collettivo o movimento antagonista, ma un imprenditore che per quanto innovativo sta comunque nell’establishment.
Il contesto è diverso, ma il problema è lo stesso, anzi sono due. In primo luogo sburocratizzare le procedure di assegnazione dei beni e di loro messa a norma. Altrimenti il riuso finisce ancora prima di cominciare. Qualche tempo fa ho intervistato un’associazione non profit romana che ha preso in gestione la struttura di un ex ente pubblico per aprirci un suo centro servizi. Una grande opportunità, peccato che solo per mettere a norma l’edificio (perché si sa, lo Stato può permettersi di costruire “in deroga”) abbia speso circa un milione di euro, più le altre risorse necessarie per avviare le attività. Risultato: una risposta negativa alla fatidica domanda se dovessero consigliare qualcun altro ad imbarcarsi in una simile intrapresa. Il secondo problema è l’accompagnamento. Non con il modello di agenzia “terza” come propone Boeri, perché ormai abbiamo alle spalle cadaveri eccellenti come ad esempio la fondazione Talenti che doveva fare matching tra beni religiosi e organizzazioni non profit chiamate a rigenerarli. Quel che serve è un mercato di servizi professionali (dagli aspetti infrastrutturali a quelli legali, sociali finanziari), in grado di accompagnare l’individuazione, l’acquisizione e il riutilizzo dei beni ed evitando un pericoloso fai da te che ha messo in crisi non poche organizzazioni non profit ingolosite dalla possibilità di acquisire beni a titolo gratuito o a prezzo non di mercato che però incorporavano problemi assai onerosi.
C’è poi la postilla, la solita: ci vogliono soldi. Proprio qualche giorno fa al G8 inglese, il premier Cameron oltre a impact investing e social stock exchange ha lanciato un fondo di 250 milioni di sterline per gli asset comunitari (biblioteche, scuole e persino pub comprati e fatti ripartire da imprese comunitarie). Ma per non farsi prendere dalla solita frustrazione esterofila c’è la partita dei nuovi fondi strutturali europei attualmente in fase di negoziazione. Un’opportunità, come si suol dire, da non farsi sfuggire.
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