Un anno e mezzo fa rimasi colpito da una frase ascoltata ad un convegno sulla convivenza sociale. Si parlava di welfare, impressi nella mia mente esattamente queste parole: “dobbiamo costruire uno stato sociale che chieda alle persone di dare il meglio di sé, non il peggio”. Scorrendo l’Agenda Monti c’è una cosa che colpisce forse di più delle omissioni o della superficialità con cui vengono trattati i temi sociali: la mancanza di una richiesta forte, impellente, eticamente autorevole di un impegno comune per la ripresa orientata alla costruzione di una società più unita e solidale.
Si conferma la tendenza di questo anno di governo guidato da Mario Monti: governare un Paese significa ormai oggi incanalarlo in una griglia di dati economici e di spesa pubblica da rispettare (nel frattempo il debito pubblico lievita, ma chi se ne importa). Governano i tecnici con parametri numerici, non solo i professori che prestano loro la faccia. È completamente assente l’idea di rispondere con la solidarietà alle iniquità coltivate dal nostro Paese negli ultimi decenni.
Si impongono sacrifici, ma per arrivare dove? Per uscire a rivedere le stelle o per ripiombare in un nuovo inferno che i venti globali impongono alle nostre decadenti società occidentali (troppo ricche per morire, troppo vecchie per rialzarsi, troppo deboli per competere)?
Perché non esistono politici o professori che invece dei sacrifici alla gente chiedono di dare il meglio di sé? I sacrifici è concesso di farli, ma solo quando a scricchiolare sono i castelli/prigione costruiti dai grandi portatori di interesse del nostro Paese. Proviamo leggere con queste lenti notizie come il salvataggio del Monte dei Paschi di Siena. Ho sentito in questi giorni amici scandalizzati da questo fatto. Gli stessi amici che però non hanno la lucidità di riconoscere le ragioni della necessità della tenuta del sistema bancario che ha enormi responsabilità nella crisi, ma al contempo, purtroppo, è anche una diga a peggiori acque che potrebbero arrivare. Quindi difendere certi interessi non è scandaloso o giusto, è solamente l’unica scelta possibile nell’unico mondo possibile in cui ci stanno allevando.
Undici anni fa, fra le vie di Genova, le nostre mani pacificamente alzate chiedevano di evitare proprio questa deriva. Questo era il messaggio, a mio parere profetico visti i tempi che sono arrivati, che volevamo dare.
Ma oggi governano i numeri, i veri ministri e sottosegretari del pensiero unico. Certo, sono importanti, lo spread non è un’invenzione dei teneri compagni di asilo del nipote dell’ex premier (e chi fra i politici nega la sua importanza è ignorante o in malafede o entrambi), ma la sensazione che prova chi vive e lavora immerso nella realtà è un’altra: dalla crisi se ne esce con modelli di convivenza e di società molto diversi da quelli che abbiamo vissuto fino ad oggi. Se ne esce con un occhio ai numeri, ma con molti più occhi impegnati ad immaginare risposte che non esistono ancora, ma che pubblico e privato sociale devono avere il coraggio di sperimentare.
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