Chiedere certezze alla statistica è notoriamente un’utopia. Ma su una cosa si può essere sicuri: quando si parla di liberalizzazioni, l’impalpabilità dei dati o la discordanza tra le fonti sono di per sé sintomo di qualcosa che non va. Questa volta a tenere banco è la questione energetica. Cosa è successo in questi sei mesi di libera scelta per il consumatore? I dati diffusi recentemente dal Rie – Ricerche industriali ed energetiche e dalla stessa Enel confondono le idee. Se per l’istituto di ricerca la liberalizzazione italiana è stata finora un flop (poco più di 480mila famiglie, non oltre il 2% di switch, per risparmi inferiori ai 10 euro annui), per l’Enel si può parlare, invece, di un successo quantificato in un milione di utenze famigliari, con un ulteriore incremento nei prossimi mesi, fino a raggiungere quota 3,7 milioni. Peccato che di quel milione attuale, un buon 80% sia passato (o rimasto) alla stessa Enel.
A mischiare ancor più le carte è il confronto tra l’Italia e alcuni tra i maggiori Paesi dell’Europa come Spagna e Francia. Qui secondo il Rie le liberalizzazioni sono andate anche peggio, con percentuali nettamente inferiori al punto percentuale o persino con un sostanziale ritorno al prezzo regolato. Insomma, se c’è un problema, questa volta non è solo italiano, ma tocca anche una buona fetta del Vecchio continente. Il nodo di tutto, come al solito, è nei metodi con cui è stato liberalizzato il mercato. «In Italia soprattutto, ma anche in molti Paesi europei come per esempio la Francia, il superamento dello statalismo nelle pubblic utility non ha realmente aperto il mercato», spiega Ovidio Marzaioli, del Movimento Consumatori. «Enel ed Edf in Francia sostanzialmente hanno mantenuto il controllo della rete e della produzione, dividendosi in numerose società private, ma comunque facenti riferimento allo stesso soggetto. In tal senso le altre migliaia di piccole aziende si sono trovate nella scomoda condizione di gestire energia comprata a prezzo di monopolio e distribuita su reti monopolistiche. Questo ha comportato numerosi costi, scaricati poi direttamente sul cliente finale».
Giungla di tariffe
Una contorta filiera che per esempio in Italia vede Enel produrre il 50% dell’energia e gestire quasi il 60% della rete nazionale. Con il risultato di avere un risparmio medio in bolletta inferiore al 5%. Uno stato di cose, non solo italiano, denunciato poco meno di un mese fa dalla stessa Commissione Europea che avvertiva sull’aggravio dei costi per imprese e consumatori europei dovuto alla concentrazione del mercato e all’integrazione verticale della fornitura che, come diceva la stessa Commissione, «determinano condizioni non paritarie di accesso». «Il problema non è soltanto l’informazione sulle tariffe, ma è la stessa offerta», aggiunge Marzaioli. «Con questo sistema nessun competitor potrà fornire un pacchetto migliore di quello degli ex monopolisti. Per ora un’offerta veramente interessante è la cosiddetta “bolletta piatta”, cioè la contemporanea gestione delle utenze acqua, gas ed elettricità. Ma in Italia oggi l’unica che potrebbe raggiungere una proposta del genere è l’Eni, per il resto delle aziende la vedo molto difficile». Così in una giungla di tariffe poco trasparenti e di migliaia di gestori poco affidabili e spesso persino sconosciuti, per il cliente è più conveniente rimanere saldamente allacciato al fornitore ex monopolista o, spesso, ritornare sui propri passi dopo aver sperimentato l’ebbrezza del mercato. Secondo il Rie, infatti, solo in Italia poco più del 16% delle famiglie e il 13% delle imprese “No-switch” sarebbe disposto a cambiare fornitore e, tra chi ha scelto il cambio, oltre il 40% delle famiglie e il 60% delle imprese si aspettava un risparmio tra il 5 e il 30%.
Il costo del «verde»
Ma se lo stallo delle liberalizzazioni può interessare buona parte dei Paesi europei, è sulla eventuale soluzione che l’Italia resta ancora fanalino di coda. Ad oggi, secondo uno studio Iefe – Istituto di economia e politica dell’energia e dell’ambiente, per raggiungere le performance di Spagna, Germania e Danimarca in fatto di fotovoltaico od eolico, il nostro Paese dovrebbe investire più di 80 miliardi di euro. Una cifra non irrisoria che «potrebbe penalizzare in modo pesante l’intera economia, se mal utilizzata», ammette lo stesso istituto. «Per ora», spiega Marzaioli, «un investimento del genere potrebbe essere fatto solo da grandi imprese che invece, come sta facendo l’Enel, stanno tornando sul carbone. Ma non bisogna dimenticare che il futuro dell’approvvigionamento energetico è nel diventare produttori e questo potrebbe essere fattibile anche per le famiglie, se solo ci fosse un intervento serio dei Comuni e delle amministrazioni locali nell’istituire una serie di incentivi e premi».
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