Politica

Consultare o imparare: this is the problem

di Riccardo Bonacina

In un interessante e personale articolo su Il Sole 24 ore che dirige, Gianni Riotta si sofferma a ragionare sull’ultimo libro di Jaron Lanier, guru di internet e dei new media, inventore della Virtual reality e dei cyberstrumenti (qui il suo sito). Lanier, proprio lui, nel recente You are not a gadget: a manifesto, mette in guardia contro la deriva del Web 2.0 con toni preoccupati.  Cosa è accaduto perché uno dei leader della rivoluzione internet denunci il Web 2010? Si chiede Riotta. E così riassume l’allarme di Lanier e ne ragiona: “Lanier lamenta l’appiattimento dei contenuti online, che motori di ricerca come Google e l’enciclopedia scritta dagli utenti Wikipedia, importano sulla rete. Mettere ogni giorno insieme, senza alcuna selezione, gli argomenti dei filosofi e le arrabbiature del tizio davanti al cappuccino tiepido, l’analisi economica di un Nobel e lo sfogo del qualunquista di turno, può essere celebrato dagli ingenui alla moda come «open source» e «democrazia di rete». Il pericolo è invece riassunto bene nelle parole del guru Lanier: «I blog anonimi, con i loro inutili commenti, gli scherzi frivoli di tanti video» ci hanno tutti ridotti a formichine liete di avere la faccina su Facebook, la battuta su Twitter e la pasquinata firmata «Zorro» sul sito. Lamenta Lanier: «Ai tempi della rivoluzione internet io e i miei collaboratori venivamo sempre irrisi, perché prevedevamo che il web avrebbe potuto dare libera espressione a milioni di individui. Macché, ci dicevano, alla gente piace guardare la tv, non stare davanti a un computer. Quando la rivoluzione c’è stata, però, la creatività è stata uccisa, e il web ha perso la dignità intellettuale. Se volete sapere qualcosa la chiedete a Google, che vi manda a Wikipedia, punto e basta. Altrimenti la gente finisce nella bolla dei siti arrabbiati, degli ultras, dove ascolta solo chi rafforza le sue idee». Il pioniere Lanier non potrebbe essere più amaro e realista. «Ovviamente un coro collettivo non può servire a scrivere la storia, né possiamo affidare l’opinione pubblica a capannelli di assatanati sui blog. La massa ha il potere di distorcere la storia, danneggiando le minoranze, e gli insulti dei teppisti online ossificano il dibattito e disperdono la ragione»”.

Ne conclude Riotta: “La rete è e resterà il nostro futuro. I nostri figli ragioneranno sulla rete. L’informazione dell’opinione pubblica critica passerà sempre più dalla carta alla rete. Dunque non dobbiamo – come ci ammonisce Jaron Lanier – permettere ai teppisti di inquinarla con le loro farneticazioni e garantirne l’informazione, la cultura e l’eccellenza contro l’omogeneizzazione e il qualunquismo”. Bhe! Tutto qui, ci chiediamo? Ce la possiamo cavare con un latrato alla luna? Con l’invocazione, implicita, a qualche regola in più e a un po’ più di moralità e di etica da parte di utenti e aggregatori?

Purtroppo, a me pare, il problema è ben più grave e radicale, suggerisce lo stesso Lanier. Il problema è che si sono profondamente modificati i meccanismi del nostro apprendimento e del sapere. Dislocando i contenuti del sapere su database, esternalizzandoli in un chip piuttosto che in un computer, a noi non è più richiesto di apprendere e di sapere, ci basta una sufficiente abilità tecnica per sviluppare le quary giuste. Lo fanno i nostri figli per fare i compiti, lo facciamo noi ogni istante. Pensate a quanti pochi numeri telefonici sappiamo ormai a memoria e al panico che ci prenderebbe se dovessimo smarrirne la memoria per un qualsiasi incidente. Ecco, negli ultimi 20 anni abbiamo esternalizzato la funzione della memoria e i percorsi dell’apprendimento più profondo e faticoso. Ci siamo ridotti a praticare forme di abilità tecnica. E questo sì che è un bel problema.

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