Non profit

Connecting people, migranti visti da (molto) vicino

Due indagini curate dal consorzio

di Maurizio Regosa

Esploratori, combattenti, vite sospese…
La percezione degli stranieri raccontata
da chi ogni giorno li incontra
e ne raccoglie storie e bisogni.
Stando alla larga da propaganda e stereotipi
Non importa quel che vediamo. Conta assai più quel che pensiamo dell’altro. I pregiudizi, le aspettative, i ragionamenti indirizzano i nostri comportamenti. Lo sa bene chi, come il consorzio Connecting People, ha a che fare tutti i giorni con i migranti, moderne epifanie di un altrove non ancora sufficientemente analizzato. E al quale ora è possibile guardare meglio grazie a due indagini che Connecting ha realizzato.

Lo straniero fra noi
Del resto è partito dalla sua esperienza. Connecting, costituito nel 2005 da alcuni soggetti del gruppo Cgm, gestisce direttamente o tramite le nove socie, diversi centri di prima o seconda accoglienza dei migranti. A Nord come a Sud. Centri di identificazione ed espulsione (i Cie) e Cara (per i richiedenti asilo). Ed è partito dal suo vissuto per individuare con esattezza come si componga l’immagine degli stranieri, quali caratteristiche ne connotino la presenza fra noi, quali reazioni suscitino. Per cercare insomma di delineare un ritratto non corrivo del prossimo che arriva. «Sentiamo l’esigenza di ragionare», spiega Giuseppe Lorenti , «sul tema così complesso dell’immigrazione lasciando da parte propaganda e stereotipi». Sono nate così due indagini, diverse. Visioni di confine, che mette a fuoco interazioni e conflitti tra comunità locale e centri per stranieri in un territorio di frontiera, l’Isontino (a cura di Giorgia Serughetti, ricercatrice di Parsec), e Connecting stories, una ricerca condotta da Etnopsicologia analitica.

Un crocevia di popoli
Cominciamo dal confine. Che è poi il paradigma dell’incontro. È sulla linea che delimita e che si può attraversare, che si misura la febbre di un incontro. In questo caso – il Friuli Venezia Giulia – non è una temperatura particolarmente alta. Un po’ perché è una regione che ha storicamente avuto a che fare con la migrazione. Un po’ perché non sono molto caratterizzati i rapporti fra popolazione locale e stranieri. Al Cie (gestito da Connecting da marzo 2008) come al Cara. Diversissime le situazioni dal punto di vista del migrante (nel primo caso è il fallimento di un progetto, nel secondo l’inizio auspicato di un nuovo corso), ma non dissimili le chiavi di lettura che la comunità autoctona tende ad applicare. È la stranezza dell’altro. La sua diversità. Come sempre. Ma anche la comprensione e l’immedesimazione. «Fuggono dalla povertà». Commenti eterogenei, in bilico fra l’esclusione e l’accoglienza.

Vittima o combattente?
Diverso il metodo di Connecting stories. Qui la descrizione del fenomeno assume l’impianto metodologico dell’analisi strutturale. Della capacità di comprendere il mondo partendo dalla nostra attitudine a tradurlo in parole. Ovvero in storie. E l’alternativa diventa forse meno ruvida. Non più l’essere dentro la comunità o il restare ai margini. Qui i migranti si svelano per quel che sono. Combattenti, esploratori. Oppure vittime, soggettività ibernate. Ed è intuitivo comprendere cosa voglia dire: il migrante lo vedi come qualcuno che cerca di cambiare il proprio destino oppure come un esploratore, che attraversa mondi nuovi e forse troverà nuove soluzioni? «De te fabula narratur», insomma. Non è un caso che per i più giovani lo straniero sia eroe e che, man mano l’età avanza, divenga un ibernato, qualcuno la cui vita è sospesa.

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