Mondo

Congo: una volontaria racconta

Emilia Longo ci racconta la sua esperienza a Lubumbashi per l'associazione milanese Alba

di Gabriella Meroni

?Terra di speranza, paese del futuro?. Questo il cartello che mi accoglie al primo ingresso nella città di Lubumbashi, il 17 Agosto 2003 alla vigilia di un?esperienza intensa che cambierà profondamente la mia vita. Nell?istante in cui l?impiegato aeroportuale, alla domanda professione ripete ?Operatrice umanitaria? prendo realmente coscienza di essere giunta a destinazione realizzando un progetto che avevo inseguito e voluto con tutta me stessa: svolgere un periodo di volontariato in Africa. Il mio sogno diventa realtà grazie a A.L.B.A., un?associazione milanese che si occupa di adozione a distanza: un efficace strumento di solidarietà attraverso il quale 3200 famiglie italiane sostengono l?accesso all?istruzione dei bambini dei quartieri più poveri e delle zone rurali di Lubumbashi. Ho vissuto per sei mesi nel capoluogo del Katanga, nella parte meridionale della Repubblica Democratica del Congo, paese tristemente noto per un conflitto infuocato definito come ?la prima guerra mondiale africana? che, dal 1998 al 2001, ha provocato circa tre milioni di morti. Il mio soggiorno mi ha rivelato una realtà lontana dai recenti e tragici episodi che si stanno svolgendo nella parte orientale (Ituri), teatro di microconflitti tra le etnie Hema e Lendu, dietro cui si muovono gli interessi economici dei paesi confinanti, attratti dalle immense ricchezze minerarie di oro e diamanti di cui il sottosuolo è ricco. Un volto diverso quello di Lubumbashi ma non per questo meno problematico. Lubumbashi, antica capitale del rame è una grande città (un milione di abitanti)che ha risentito profondamente, negli ultimi anni, della crisi del settore minerario sfociata in un regresso socio economico senza precedenti. Gli abitanti guardano con nostalgia ?all?età dell?oro? della Ge.ca.mines, la generale del Carrières e del Mines, la società che gestiva la miniera e che ha fornito, per lungo tempo, alla popolazione un lavoro ben retribuito e annessi servizi sociali e sanitari per gli impiegati e le loro famiglie. Agli inizi degli anni novanta, con la crisi del prezzo del rame e successivamente con i rivolgimenti politici e sociali interni, l?azienda è entrata in crisi ed è stata costretta a licenziare 20.000 dipendenti che si sono trovati improvvisamente disoccupati e costretti ad arrangiarsi alimentando l?economia del sommerso. Oggi di quel periodo rimane solo la testimonianza di un’enorme montagna nera di scorie che pesa sulla popolazione come un’ombra inquietante. Nonostante alcuni timidi segnali di ripresa in città si ritrovano le problematiche comuni a molti paesi del continente africano: povertà, bassi livelli di reddito, disoccupazione, alti tassi di natalità, malnutrizione e carenze strutturali condite da una buona dose di corruzione amministrativa! Per le vie della città La strada è l?espressione più evidente di questo malessere diffuso. Un mix di colori variegato colpisce inevitabilmente l?attenzione: il colore giallo dei bidoni con i cui i bambini trasportano l?acqua, assente in moltissimi quartieri periferici, quelli variopinti dei pagna (tessuti multicolori) indossate da giovani donne che, con i loro piccoli fagottini addormentati sulle spalle, espongono al mercato la loro mercanzia: un pugno di legumi, foglie di patate dolci o di manioca, manghi, e le pannocchie di mais arrostite, il bianco dei taxi bus pieni fino all?inverosimile e infine il colore scuro e indefinito delle magliette sbrindellate dei bambini di strada che ti rincorrono per chiederti l?argent. Il colore della terra rossa delle strade sterrate, piene di buche e di voragini immense che, durante la stagione delle piogge, diventano impraticabili, mi entra nelle viscere come il numero impressionante di bambini, che stazionano ovunque ai bordi della strada e le cui condizioni attirano sempre e in modo diverso il mio sguardo colpendomi come un pugno allo stomaco. Li osservo dal finestrino della Land Rover , rigorosamente abbassato per rispondere ai loro saluti che esprimono con un entusiasmo indescrivibile urlando Muzungu By (Ciao Bianco) per poi tornare, un istante dopo, alle loro occupazioni abituali: far ruotare un copertone di una bici, giocare a terra in pessime condizioni igieniche con una palla di stoffa o, durante la stagione delle piogge, immersi a piedi nudi nei rivoli di acqua e fango divertendosi a farvi scivolare dei pezzettini di legno. Altrettanto numerosi i bambini ? lavoratori? che stazionano per le vie della città appostati fuori dai negozi del centro per vendere dei sacchetti, riparare bici, vendere allo stadio i caratteristici ?vitumbula?, bignè dolci fritti, condurre bici cariche di sacchi di carbone, spingere dei carretti di legno pieni di ferramenta. Come mi appaiono lontane e controverse le campagne contro lo sfruttamento del lavoro minorile!!! In una realtà in cui, per la maggior parte delle famiglie, far lavorare i propri figli è una scelta obbligata, dettata dalla mancanza di mezzi e dalla necessità di barcamenarsi in qualunque modo, per garantire nel breve periodo i bisogni primari della famiglia, lo stupore e l?indignazione iniziali lasciano il posto ad un sentimento di amarezza nell?universo di questa normalità generalizzata. Un volto altrettanto drammatico dell?infanzia è quello dei ragazzi di strada, fenomeno che a Lubumbashi interessa circa 5000 bambini, allontanati dalla famiglia perché privi dei mezzi per il loro sostentamento o, più frequentemente, a causa di credenze legate alla stregoneria. I bambini sono rifiutati dai loro genitori perché accusati di essere la causa di eventi negativi che si verificano all?interno del nucleo familiare, quali la morte o malattia o semplicemente perché il raccolto non ha prodotto buoni frutti. Per molti di loro l?unica alternativa alla vita in strada, dove vivono in condizioni igienico- sanitarie terribili, è fornita dai Padri salesiani locali che, in collaborazione con l?Ong Amici dei Popoli, offrono loro delle strutture di prima accoglienza( Bakanja Centre) un percorso di scolarizzazione e di formazione professionale ai fini di un loro inserimento sociale e gradualmente anche familiare. A scuola L?istruzione è un altro nodo cruciale di questo paese. Lo Stato è completamente assente e le scuole, gestite spesso dalle parrocchie, convivono con situazioni di instabilità, dovute alla mancanza di risorse economiche, alla frequenza altalenante degli alunni, ai tassi elevati di abbandono, a causa della difficoltà delle famiglie di pagare le tasse scolastiche Così un sentimento di indignazione mi invade quando, a tre settimane dall?apertura delle scuole, apprendo che molti bambini dovranno attendere che il raccolto del mais dia ai propri genitori un profitto sufficiente a pagare le tasse scolastiche: 2500 franchi trimestrali (circa 5 euro). L?atteggiamento ossequioso dei bambini che accolgono il mio ingresso nelle classi con una formale cerimonia di saluto, tutti in piedi a chiedermi ?Bonjour Maman Emilia, Comment Va va?? mi imbarazza per questa aurea di privilegio che leggo nei loro grandi occhi neri. La sento addosso come un etichetta indelebile e pesante come un macigno. Sui loro banchi a stento una penna e un quaderno ma niente libri di testo e così il professore è costretto a scrivere tutta la lezione alla lavagna mentre successivamente tutti gli alunni leggono in coro e ad alta voce il contenuto. Nell?infermeria delle scuole A.L.B.A. i bambini si recano per ottenere indicazioni preventive e cure mediche gratuite per le principali malattie di cui soffrono: la malaria, prima causa di morte soprattutto tra i bambini sotto i cinque anni di età e il colera, che altrimenti sarebbero inaccessibili. In questo marasma di bisogni insoddisfatti solo gli organismi umanitari laici e religiosi sono in grado di dare delle risposte concrete e di sostituirsi ad uno Stato che nel 2002 ha destinato il 18% del proprio budget alle spese militari e zero alle voci Sanità e Istruzione. Per far fronte ad alcune di queste carenze, nel mese di Settembre, abbiamo organizzato nelle 6 scuole ALBA le distribuzioni di materiale scolastico, evento che ha assunto tutti i caratteri di una vera e propria cerimonia molto scenografica: una moltitudine di bambini in divisa bianca e blu, divisi per classi attendono il proprio turno pazienti e composti sotto il solo cocente prima di dirigersi in fila indiana verso le nostre postazioni. Osservare i più piccoli avvicinarsi impauriti dalla mia presenza prima di porgermi timidamente le mani per ricevere penne, matite, temperini e le divise scolastiche, seguirli con lo sguardo e sorprenderli sorridenti mentre si confrontano vicendevolmente le copertine colorate dei quaderni, mi ha creato un mix di sentimenti agrodolci: gioia, emozione per essere partecipe del loro stato d?animo ma anche amarezza e disagio per questa veste di ?donatrice? che diventerà fino alla fine il mio marchio di riconoscimento. Nei villaggi della brousse Altrettanto emozionante è l?atmosfera che regna nelle scuole della cosiddetta ?brousse?, la campagna: 55 chilometri di strada sterrata, stretta e piena di buche che raggiungiamo dopo 2 ore di traballamenti seduti sul cassone del camion. Durante il lungo tragitto lo sguardo si perde nel paesaggio circostante tra alberi di manghi, immensi termitai, minuscole capanne di fango con i tetti di paglia, donne che lavorano i campi quasi mimetizzate nella vegetazione, uomini con i volti segnati dalla fatica che, in marcia verso il mercato cittadino, spingono le bici cariche di sacchi di mais e di carbone, uniche attività redditizie della gente del posto. Nel piccolo villaggio di Kibanda l?accoglienza della gente è indescrivibile: i bambini, a piedi nudi con le magliette più sporche che abbia mai visto, accorrono festosi ai bordi della strada e, con una tenerezza senza confini, agitano le mani e ci salutano urlando ?Jambo? o ?Allooo? mentre gli adulti sorridenti mantengono un atteggiamento più composto. Il villaggio è immerso in un?atmosfera quasi surreale in cui il tempo sembra essersi fermato ad un secolo fa, scandito da semplici gesti e attività quotidiane. Sotto la payotte, un tetto di paglia sorretto assi di legno, il capo villaggio conversa con gli uomini del villaggio, poco più in là sotto un albero di manghi due ragazzine sbucciano la manioca e una signora più anziana mescola in una grande pentola il cibo tipico: il bukari, una sorta di polenta a forma di palla a base di farina di mais, acqua e olio. Questa atmosfera apparentemente affascinante, nasconde, tuttavia, aspetti meno idilliaci: la mancanza di acqua, corrente elettrica, servizi igienici, l?essere tagliati fuori dal mondo soprattutto durante la stagione delle piogge quando, i tetti di paglia delle capanne crollano e, raggiungere la città per qualsiasi emergenza diventa un?impresa ardua. Nelle scuole, immerse nel verde del villaggio, le condizioni delle classi sono peggiori rispetto a quelle delle città. I bambini, seduti su massi duri i bambini, privi di banchi, sono curvi sulle ginocchia per scrivere sui loro quaderni, sui muri di pietra solo una lavagna nera e due piccole fessure da cui entra un po? di luce. Che emozione rincontrare i piccoli della prima elementare che a distanza di un mese dal nostro ultimo incontro ci mostrano i loro piccoli manufatti: sedie e tavoli in miniatura fatti da loro con il fango e che, grazie agli acquerelli e i pennelli che gli abbiamo fornito, hanno assunto i toni del blu e del rosa! Immortalo con una foto questi istanti passati insieme, intenta a distribuire magliette spesso troppo grandi per i loro corpi esili o impermeabili e stivali, utili durante la stagione delle piogge per gli alunni che percorrono a piedi fino a 12 Km per recarsi a scuola. Nella strada di ritorno incontriamo molti bambini con la divisa ALBA in marcia verso casa e io mi chiedo quanti di loro potranno mutare il loro destino: concludere a stento la scuola elementare, seguire le orme dei padri agricoltori: il lavoro nei campi, un matrimonio con giovani ragazze del villaggio, promesse spose fin dalla tenera età, scambiate ancora come una merce con la tradizionale dote( pratica diffusa in tutte le classi sociali), e future madri di un numero imprecisato di bambini. E? stato difficile salutare gli alunni delle scuole della brousse, a cui mi sono legata in modo speciale, assistere qualche giorno prima del mio ritorno alla loro cerimonia di canti e saluti trattenendo a stento la commozione per le loro testimonianze di affetto. Mentre li ringraziavo avrei voluto stringerli singolarmente e urlare che non li avrei dimenticati. 14 Febbraio: la partenza Ho lasciato questa terra con un nodo alla gola e una miriade di ricordi, di volti e di immagini che custodirò nel mio cuore perché parte di un?esperienza preziosa che mi ha arricchito profondamente. Oggi a distanza di un mese dal mio ritorno in Italia, rivivo tra le pagine del mio diario quei giorni con la stessa intensità di allora e una parte di me è ancora lì testimone di una realtà che mi ha inizialmente sconvolto, a tratti indignato, stregato e infine assorbito ?pope pole? (piano piano) nel suo vortice. Al termine di questo viaggio narrativo voglio ripartire per altre mete dimenticate e ritornare, un giorno, a Lubumbashi per scoprire che la speranza di costruire un futuro migliore non sia più solo uno slogan ma sia diventata realtà. Emilia Longo


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