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Congo/Kinshasa: le dimensioni culturali di un conflitto devastante

Mentre gli scontri imperversano, un professore universitario congolese chiede la soppressione del termine "rwandafono". Una richiesta che mette allo scoperchio gravissimi crisi identitarie

di Joshua Massarenti

La guerra che dal 1996 oppone il Rwanda del presidente tutsi Paul Kagame e la Repubblica democratica del Congo (Rdc) guidato dal 2002 dal presidente Jospeh Kabila è stata spesso interpretata in chiave marxista. A detta di molti esperti infatti, l’esercito rwandese ha invaso e occupato ripetutamente ampie fasce territoriali dell’est congolese per motivi puramente economici. I danni non sono stati pochi. Secondo i rapporti dell’International Rescue Committee (un’ong con base a New York) e dell’Institut Barnett in Australia pubblicati questo mese, la prima guerra mondiale africana – che ha visto l’Angola, lo Zimbabwe, la Namibia affiancarsi a Kinshasa contro l’Uganda e il Burundi – ha provocato direttamente o indirettamente 3,8 milioni di morti dal 1996, nonché milioni di sfollati e rifugiati. Sin dal principio, il Rwanda ha giustificato l’invasione in Rdc con la necessità di porre un termine alla minaccia (fittizia o reale che sia, ndr) rappresentata da “forze rwandesi negative”, composte tra l’altro da numerosi estremisti rwandesi hutu responsabili del genocidio anti tutsi compiuto nel 1994. Da parte sua, le autorità congolesi, accusate da Kigali di complicità con questi gruppi estremisti, sostiene invece che i soldati rwandesi hanno occupato il Paese per appropriarsi le immense ricchezze minerarie di cui dispone l’Rdc nell’est del territorio. Tra le altre conseguenze devastanti di questa crisi, vi è la diffusione di sentimenti xenofobi che ampie fasce delle popolazioni civili congolesi ormai nutrono nei confronti dei rwandesi, soprattutto tutsi. Per questo motivo, la proposta di un professore universitario, un tale Sekimonyo Wa Magango, potrebbe destare un certo stupore tra l’élite congolese. In una dichiarazione raccolta dall’Afp, Wa Magango ha chiesto ai membri della comunità rwandese hutu e tutsi del Nord Kivu di rinunciare all’appellativo “rwandofono” come termine identitario. “La terminologia rwandofono” sostiene Wa Magango, “che raggruppa sia i Banyamulenge – tusti congolesi residenti nella provincia del Sud Kivu, nei pressi della frontiera con il Rwanda – che i tusti e gli hutu del Nord Kivu, non esisteva quindici anni fa”. Di conseguenza, “gli hutu e i tutsi devono rinunciare a una terminologia che semina soltanto confusione” e convincersi “che non tutti i congolesi li detestano”. Con questa dichiarazione, l’ex ministro dell’educazione nazionale congolese del regime Mobutu ha voluto attirare l’attenzione sul fatto che l’azione militare intrapresa dallo scorso 12 dicembre da soldati ammutinati congolesi nel settore di Kanyabayonga non implicava tutta la comunità tutsi e hutu del Kivu. “Il piccolo gruppo di tutsi e hutu coinvolti negli scontri contro le forze governative non rappresenta che un’infima minoranza della popolazione hutu e tutsi presente in Kivu”. Che la questione dei “rwandofoni” in Rdc susciti in questi giorni punti di riflessione su di una parte oscura del conflitto tra Congo Kinshasa e Rwanda è provato dall’ampio articolo apparso nell’ultimo numero del settimanale francofono Jeune Afrique – L’intelligent e dedicato in larga misura all’intricatissimo mosaico etnico del Kivu. Prima sorpresa. Dal pezzo scritto da Cherif Ouazani, si apprende che il 45% della popolazione residente nel Kivu è composta da hutu e tutsi, tra i quali figurano i Banyarwanda, “termine generico che definisce i congolesi rwandofoni e che può essere suddiviso in tre categorie”. La prima sarebbe composta da autoctoni del Bwisha, una regione dipendente dal Rwanda in epoca coloniale. “Una convenzione firmata nel 1910 dalle potenze coloniali belga, inglese e tedesca aveva delimitato le frontiere attuali tra il Congo e il Rwanda. Le popolazioni rwandaofone del Bwisha hanno avuto sei mesi per scegliere il Rwanda, ma nella stragrande maggioranza hanno deciso di rimanere in Congo”. La seconda categoria di Banyarwanda sarrebe invece composta da immigrati risalente all’età precoloniale (fine ‘800) che si sono installati negli altipiani dell’Itombwe (sud Kivu). Questi immigrati non sarebbero altro che pastori tutsi (precisamo, notabili tutsi) decisi a fuggire il regime monarchico del clan regale rwandese degli Abanynginya e che, in seguito all’arrivo nell’Itombwe di rwandesi hutu e tutsi durante gli anni ’50 e ’60, decisero di autiodefinirsi Banyamulenge. Terza categoria, i trapiantati del Masisi. “Con lo scopo di coltivare le colline fertili di questa regione (nordovest del Kivu) e decongestionare un Rwanda sovrappopolato, nel 1934 le autorità coloniali belghe decisero di istituire una Missione di immigrazione di Banyarwanda. In vent’anni, migliaia di hutu e tutsi sono stati spostati dal Rwanda al Masisi. A queste categorie di rwandesi, si sono aggiunte altre ondate migratorie provocate dal genocidio del 1994, all’indomani del quale 2 milioni di rifugiati hutu hanno trovato riparo in campi profughi allestiti lungo la frontiera con il Rwanda. Nel 1996, le autorità rwandesi decisero di porre un termine a questa minaccia smantellando i campi (i morti furono numerosissimi tra i profughi hutu) e forzando i rifugiati a tornare in Rwanda. Ma molti di questi rifugiati, presi in ostaggio dai responsabili hutu del genocidio, furono costretti a fuggire nel cuore del Congo-Kinshasa. Sempre nel 1996, le autorità di Kigali (fagocitate da tutsi ugandofoni) decisero di sostenere ribelli congolesi presenti nel Congo orientale per rovesciare l’ex presidente-tiranno congolese Mobutu. Mobutu cacciato, il Rwanda mise il nuovo presidente Kabila (leader di un’alleanza scomposita di ribelli supportata militarmente da Kigali) di fronte ai fartti: noi ti abbiamo fatto presidente, tu ci consenti di arrestare i genocidari e spartirci le risorse di cui il sottosuolo congolese è ricchissimo nella sua zona orientale. Dopo il rifiuto di Kabila, esplode la guerra tra i due Paesi nella quale gioca un ruolo da protagonista assoluto nel Kivu l’Rcd (Unione congolese per la democrazia), tra le cui fila si impongono numerosissimi congolesi rwandofoni. Alla cacofonia che regna nell’esercito congolese e nelle alleanze intricatissime tra leadership locali, regime di Kagame e Kinshasa, si sovrappongono massacri causati da vecchi contenziosi sul diritto di proprietà terriera, divergenze sull’interpretazione del diritto consuetudinario ecc. sullo sfondo, si rafforzano le difficoltà a distinguere i congolesi dai rwandesi. Il nuovo codice sulla nazionalità adottato il 25 settembre scorso dal governo di transiozione ha messo fine alla confusione giuridica che vedeva il diritto del sangue prevalere sul juris solis. De facto, i banyamulenge sono considerati congolesi. Ma per convincere gli “altri” congolesi, la pace è fondamentale sostiene L’intelligent, a detta del quale i “nuovi” congolesi vengono troppo facilmente assimilati agli occupanti rwandesi, sia hutu (estremisti) che soldati hutu e tutsi dell’esercito rwandese.


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