In questi giorni ho riflettuto a lungo sulle vicende che assillano il continente africano, trovando una notevole difficoltà a scrivere su questo blog. Sì, quasi fossi sopraffatto da una sequenza di accadimenti tremendamente ostici da discernere. La costante in questo tentativo di analisi che sto cercando di elaborare a singhiozzo è l’ irresolutezza dello scenario continentale, a cui si contrappone la voglia di redenzione della gente. Dallo Zimbabwe (dove la diatriba tra il presidente Robert Mugabe e il leader dell’opposizione Morgan Tsvangirai sembra essersi apparentemente sopita, senza però spegnere del tutto le incertezze sul futuro di un Paese ridotto allo stremo da inedia e pandemie), alla Somalia (un Paese che da sabato scorso ha un nuovo presidente: Shek Sharif Shek Ahmed eletto da un parlamento che, grazie agli accordi tra le varie fazioni somale, è stato integrato con i deputati del Alleanza per la Ri-Liberazione della Somalia (Ars), il gruppo del nuovo capo dello Stato); dalla Repubblica Democratica del Congo (dove l’uscita di scena del leader ribelle Laurent Nkunda non sembra offrire ancora sufficienti garanzie per un ristabilimento dell’agognata pace) al Darfur (la tormentata regione sudanese, lungamente ostaggio di una cricca di briganti). Per non parlare della crisi politica che ha colpito il Madagascar (Paese circondato dalle acque dell’Oceano Indiano, nuovamente in ebollizione: il presidente Marc Ravalomanana è infatti impegnato in un braccio di ferro con il sindaco della capitale, Andry Rajoelina). E cosa dire della “guerra fredda” tra Etiopia ed Eritrea? Queste sono tutte situazioni con le quali dovrà fare i conti l’Unione Africana (Ua) – il cui 12mo summit è da ieri in fase di svolgimento ad Addis Ababa – che pare abbia da oggi un nuovo presidente di turno: il leader libico Muammar Gheddafi. Premesso che la Libia in questi anni ha espresso una politica quantomeno discutibile a livello continentale, l’Unione Africana appare sempre più divisa al suo interno. Non è un caso se all’attuale vertice prendono parte i rappresentanti di soli 20 Stati membri su un totale di 53: in evidenza la forte contrapposizione interna sulla revisione istituzionale dell’Unione. In questo scenario caratterizzato da una forte instabilità geopolitica, bisogna considerare attentamente cosa faranno sia gli americani che i cinesi. Oggi il 20 per cento del petrolio consumato dai cittadini statunitensi, per volontà dell’ex presidente George W. Bush, proviene dall’Africa; e il business cinese non è affatto da meno se si considera che gli scambi commerciali tra il Paese asiatico e il continente africano sono passati dai 5,6 miliardi del 1999 ai circa 50 miliardi del 2006. Un’impennata che è andata di pari passo con l’incremento a doppia cifra del Prodotto interno lordo cinese. Ma soprattutto, e capita spesso quando si parla del neocapitalismo cinese e del suo rapporto con i governi africani, con le denunce di corruzione e scarsa trasparenza. Il rischio, come ho già scritto altre volte, è quello di una sorta di parcellazione dell’Africa, caratterizzata dal controllo straniero (deciso a tavolino o in altra maniera) delle cosiddette aree d’interesse strategico legate alle fonti energetiche e minerarie. Non resta che attendere gli sviluppi di una situazione continentale ancora estremamente fluida e imprevedibile.
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