Mondo
Congo black-out della pace
Sulla disperazione di un popolo di sfollati, lincubo del genocidio ruandese. Da Bunia (Congo).
Disperazione ovunque. Le strade di Bunia, capoluogo dell?Ituri, regione del Nord-Est del Congo, sono deserte. Si sente solo il rumore sordo delle armi. I colpi di mortaio fanno capire che qui la guerra non è finita. La popolazione si è rassegnata a piangere i morti, a cercare di che sfamarsi. La vita è paralizzata. E nulla possono fare le organizzazioni non governative presenti in città. Riusciamo a incontrare i volontari di Coopi – Cooperazione internazionale, ong di Milano, che da giorni sono asserragliati in casa. “Nei periodi di calma”, racconta Silvia Giardino, “la gente viene nei nostri centri dove aiutiamo i malnutriti e distribuiamo il cibo. Poi cresce la tensione e tutti scappano. Così il nostro lavoro viene vanificato”. Coopi si occupa di 2 centri terapeutici e di 8 punti sanitari per combattere la malnutrizione. La popolazione percorre per raggiungere i centri anche 60 chilometri a piedi, arriva sfinita. Sono tutti sfollati che non hanno respiro, sono costretti a fuggire di villaggio in villaggio, inseguendo la vita, lasciandosi alle spalle la morte.
“La guerra non si è mai interrotta”, continua Silvia, “si sposta continuamente. Il 70% delle persone che vengono nei centri sono sfollati e per questo lavoriamo anche nella distribuzione dei kit di cucina. Soffriamo nel vedere la popolazione ridotta in queste condizioni”. Dai centri di Coopi, in momenti di relativa calma, passano tra le 100 e le 150 persone al giorno. Gianni di Mauro, un altro volontario, però, ricorda un?altra Bunia, quella di vent?anni fa. “Era una città bellissima”, ricorda, “l?ospedale era forse il migliore del Congo. Le strade asfaltate, fiori ovunque. L?economia era fiorente, c?erano addirittura negozi di Armani. In certi alberghi si poteva entrare solo con la cravatta. La strada Mambasa-Kisangani, lunga circa 700 chilometri, si percorreva in una giornata, oggi ci vogliono settimane. Bunia è tornata indietro di sessant?anni”.
Tanta la tristezza negli occhi di Gianni. Ma è così, la guerra schiaccia tutto, distrugge. Fuga, disperazione e morte. La città si svuota. Come in ogni guerra. Materassi di gommapiuma sulla testa. Il sole a picco. E rigorosamente in fila indiana lungo la strada che porta all?aeroporto. Bambini per mano con il volto rigato dalla paura. Una processione verso una speranza improbabile. Alle spalle le armi che crepitano. Migliaia di persone cercano rifugio all?aeroporto, chiuso da giorni e diventato base militare ugandese, in cerca di una via di fuga dai massacri. La gente di Bunia scappa dai colpi di mortaio che la rincorrono. Sono tutti hema, l?etnia minoritaria della regione, gente orgogliosa, allevatori, nipoti o cugini dei tutsi ruandesi. Dietro di loro i lendu, bantu, figli o cugini degli hutu ruandesi. Sembra un film già visto: quello del genocidio ruandese. Ma questa è realtà. Dura e cruda realtà fatta di morti, massacri, fughe, rifugiati, contrasti etnici usati ad arte dai ribelli, appoggiati da questo o quell?altro Paese in una guerra infinita, quella del Congo, che dura da cinque anni. Gli appetiti dei Paesi confinanti, dei ribelli con sigle altisonanti, non si sono arrestati di fronte alle tregue, agli accordi politici che tentano di mettere la parola fine al massacro sistematico. Quasi 3 milioni di morti in cinque anni.
In aeroporto si mettono in fila. Dall?altra parte della pista gli ugandesi stanno caricando un aereo cargo: carri armati, blindati e soldati dai volti gentili. Ma anche bambini soldato arruolati per combattere una guerra non loro. Gli hema, in fila, attendono il loro turno. Sperano di salire su quell?aereo che ha come meta Entebbe, Uganda: la salvezza e la certezza di vivere da rifugiati in un Paese non loro, in campi fatiscenti, ma lontano dalla sicura morte. I ?soldatini? adolescenti scattano all?ordine dei loro comandanti. I rifugiati attendono da giorni di partire. Ecco, vengono chiamati, avanzano. No, tutti indietro. Dietrofront, non è ancora arrivato il momento. E la speranza si sgretola, affonda nell?asfalto della pista.
Gli ugandesi devono lasciare l?aeroporto. La tensione è alta. La Monuc, la missione di osservatori dell?Onu, non ha la forza militare per mantenere il controllo della città, figuriamoci dunque della regione dell?Ituri. Eppure i compaund dell?Onu si riempiono di persone che, qui, si sentono più protette.
è una mattina qualsiasi. La vigilia della partenza delle truppe dell?Uganda, Paese occupante, e la tensione si alza. Le strade di Bunia sono deserte. I magazzini chiusi. E non è notte. Tutti aspettano l?offensiva dei lendu. Intanto un plotone di militari congolesi, travestiti da poliziotti, fanno la loro parata, cantando e correndo, per le vie centrali della città. Fanno sapere che ci sono. Ma la gente non sorride. Da lì a poco il plotone cerca rifugio negli edifici della Monuc dove ha trovato riparo anche il capo della polizia locale.
Il giorno è arrivato: 6 maggio. Riprendono i combattimenti. è un massacro. Lo scontro è feroce. Si fronteggiano le due fazioni: hema e lendu. è una storia infinita di potere. Tutto questo mentre a Kinshasa, capitale del Congo, sono in corso le trattative per formare il governo di transizione, per definire i quattro vice presidenti che affiancheranno il capo di Stato, Joseph Kabila.
Nei palazzi, compresi quelli della missione Onu, si discute, e intanto per le strade di Bunia si muore. Il gioco politico è chiaro: il Consiglio di sicurezza ha imposto agli ugandesi di lasciare la regione. L?Uganda ha risposto deciso: lasciamo il Congo in tempo zero. Panico e sconcerto. La Monuc non ha la forza di rimpiazzare militarmente gli ugandesi. E allora si tratta. L?Uganda vorrebbe rimanere. La regione è ricca di risorse, il petrolio vorrebbe trovare la luce, e gli ugandesi lo sanno. Per questo lavorano dietro le quinte, sostenendo questa o quell?altra fazione ribelle. All?inizio è l?Upc, l?Unione dei patrioti congolesi guidata da Thomas Lubanga, di etnia hema, a prendere il potere, ma subito fa l?occhiolino ai ruandesi. Scontenta gli ugandesi e, allora, si va nuovamente alle armi. L?aiuto di Kampala si rivolge ai lendu, nemici giurati dell?Uganda. Insomma, il giochino delle tre carte.
In mezzo, un contingente di caschi blu uruguaiani che non possono nulla, se non fare da deterrente. Però il mandato è debole. E poi a Bunia non esiste nessuna logistica militare dell?Onu. I primi soldati arrivano con due bottiglie d?acqua e due razioni da combattimento. Troppo poco. L?Uganda lo sa. Nei palazzi della Monuc di Kinshasa le trattative si affiancano alla preparazione del contingente militare che dovrebbe sostituire l?esercito ugandese nella zona: 700 uomini che dovrebbero diventare 2.300 entro l?estate. Lo sforzo è enorme. Ma gli ugandesi se ne vanno. È guerra. Sei giorni di battaglia feroce e l?ex amico dell?Uganda, tornato all?ovile, Lubanga torna a controllare Bunia. Viene firmata una tregua. Ma le preoccupazioni rimangono. Gli osservatori sono scettici, se non pessimisti. La parola fine non è stata ancora messa. Di bocca in bocca, ma sottovoce, rimbalza la parola genocidio.
Riusciamo a salire su un aereo che ci porta lontano dall?inferno. Corre il bimotore sulla pista. Decolla. I rumori della guerra svaniscono. E torna il silenzio su una guerra dimenticata dal mondo.
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