Famiglia
Congedo per i papà dei bimbi volati via prima di nascere
Dal marzo 2021 tutti i papà possono avvalersi di dieci giorni di congedo parentale, anche quelli che hanno perso un figlio durante la gravidanza: in Italia sono circa 1.500 l'anno
«Quando morì nostro figlio, all’ottavo mese di gravidanza, uno tsunami travolse la nostra vita, sgretolando sogni, speranze, progetti. Mia moglie era distrutta. Io anche, ma il mio dolore era invisibile agli occhi di tutti. Francesca chiese il congedo di maternità. Io tornai al lavoro il giorno dopo il funerale. Appena il tempo di seppellirlo e di ricacciarmi le lacrime in gola. Ogni giorno maledico quella fretta». Alberto Comi è uno di quei 1.500 papà che ogni anno perdono un figlio durante la gravidanza o nelle prime ore di vita il cui dolore viene negato, soffocato, ignorato. Non solo dalla società, ma anche dalle leggi. Uno di quelli che per andare all’anagrafe a registrare il proprio figlio come nato morto, fino a pochi giorni fa, dovevano prendere permesso al lavoro, perché era previsto solo un giorno di lutto, e niente altro.
Nella legge di bilancio 2021 è presente un comma che riguarda questi 1.500 padri. Dal marzo 2021 tutti i papà possono avvalersi di dieci giorni di congedo parentale, anche quelli che hanno perso un figlio durante la gravidanza (dopo il 180 giorni dal concepimento, cioè dalla ventottesima settimana di gestazione).
È un cambiamento importantissimo. Certo, è poca cosa rispetto al congedo per lutto che Jacinda Ardern ha proposto in Nuova Zelanda e che prevede fino a 3 giorni di congedo parentale per le donne e per i papà che hanno subito una perdita a seguito di un aborto o decesso perinatale anche nelle prime settimane di gravidanza, ma è pur sempre un passo significativo. In Italia l'obbligo per i padri di astenersi dal lavoro per dieci giorni anche in caso di morte perinatale del figlio è esplicitato nella circolare dell’INPS n° 42 dell’11 marzo 2021. Per “periodo di morte perinatale” si considera il periodo compreso tra l’inizio della 28° settimana di gravidanza e i primi dieci giorni di vita della neonata o del neonato. Il congedo può essere fruito entro i cinque mesi dalla nascita del figlio.
«Quando morì nostro figlio Stefano, io tornai al lavoro dopo due giorni dal parto di mia moglie. Per mesi non mi fermai, quasi per accantonare il problema e nasconderlo a me stesso», racconta Valerio Nicolosi, straordinario fotografo e documentarista esperto di rotte migratorie e Medio Oriente, che alcuni anni fa perse il bambino che lui e la sua compagna aspettavano. «Dopo tanto tempo sono riuscito a fermarmi, a parlarne a fare un percorso di terapia di coppia e individuale e ho potuto elaborare l'assenza di Stefano». Se le madri sono al centro dell'attenzione e portano i segni della gravidanza sul proprio corpo, aggiunge il fotografo, «nel caso dei padri il ruolo che la società impone è quello di essere forti, di non cedere quando in quel momento vorresti solo che il mondo si fermasse e poter urlare per tirare fuori il dolore e la rabbia. I padri per alcuni aspetti sono essi stessi vittime della società patriarcale e della performance, dove non è lecito stare male e avere delle debolezze».
«Il lutto perinatale è un’esperienza molto dolorosa che colpisce tutti i componenti della famiglia: i genitori, i nonni, gli zii e i fratellini… Tuttavia se ne parla ancora poco e l’attenzione, quando c’è, è quasi totalmente rivolta alla mamma. Dei padri e del loro lutto ci si occupa ancora troppo poco», sottolinea Claudia Ravaldi, fondatrice e presidente dell’associazione CiaoLapo, la onlus che da 14 anni offre supporto alle famiglie in lutto. «Sono ancora numerosi i pregiudizi culturali che vedono il papà, l’uomo in generale, come colui che deve essere forte, che reagisca e che superi il lutto in poco tempo e che si dedichi alla cura della partner. Molti padri, invece, provano emozioni molte intense come impotenza, rabbia, dolore, mancanza e si sentono incompresi da chi li circonda che, spesso, non riconosce l’intenso legame che era stato creato già durante la gravidanza. CiaoLapo accogli le storie di queste mamme e di questi papà nei colloqui di sostegno psicologico di coppia, individuali e nel gruppo di automutuoaiuto per genitori (per info si può scrivere a info@ciaolapo.it)
«Quello che mi ha aiutato è vedere che la nostra personale tragedia non fosse l’unica e che al mondo ogni giorno ci sono drammi simili o uguali», torna a raccontare Nicolosi. «Con la morte e la disperazione ci faccio i conti ogni volta che mi metto in viaggio e entro in un campo profughi o su di una nave umanitaria. Non sai quello che ti capiterà ma sai che incontrerai la disperazione. Non è una consolazione vedere che anche altre persone soffrono, è condivisione di cui a volte non c'è nemmeno bisogno di parlarne. Basta un gesto che dice "io ti capisco, lo so" e quella disperazione singola diventa un'emozione collettiva». La prima ecografia a cui Valerio Nicolosi ha assistito dopo la morte di Stefano è stata su di una nave, pochi minuti dopo un soccorso in acque internazionali. «La donna era ivoriana e la gravidanza era il frutto di tanti stupri, tanto da non sapere chi fosse il padre. Gli occhi lucidi e sbarrati parlavano più di mille parole e l'unica cosa, l'unico gesto che potessi fare era allontanarmi di qualche passo per lasciare a quella donna la sua intimità, pur stando sul ponte di una nave umanitaria. Quelli occhi li rivedo in foto spesso e ancora mi fanno paura perché ricordo il battito, quello che a Stefano ad un certo punto si è fermato». Dopo di lei, ci fu una donna che viaggiava con suo marito, «felice che suo figlio stesse bene, che il battito c'era e lui si stava muovendo. L'ho fotografata mentre sorride, mentre con il suo volto ci dice che nonostante tutto lei era felice. Adesso siamo in attesa di Lorenzo, nascerà tra qualche giorno. Dopo un lutto perinatale nessuna gravidanza è serena, ma siamo arrivati quasi alla fine».
L’impatto sui padri è ancora sottovalutato e poco esplorato nonostante oggi abbiano più occasioni per vedere e per sentire i bambini durante la gravidanza e per iniziare a sognare un futuro con loro. «Spesso il mancato riconoscimento formale è inversamente proporzionale al prematuro riconoscimento del feto come individuo, incoraggiato dalle nuove tecnologie», spiega Claudia Mattalucci, docente di antropologia all’Università Bicocca, che ha affrontato il tema nel libro Antropologia e Riproduzione (Cortina, 2017) «Diversamente dalle generazione precedenti le coppie di oggi, che hanno avuto gravidanze precocemente attestate e tecnologicamente monitorate, si confrontano con la perdita di un bambino che non solo hanno concepito ma che, a seconda dell’età gestazionale della perdita, hanno visto attraverso l’ecografia e percepito attraverso una moltitudine di esami diagnostici. Prassi, queste, che alimentano la fiducia nel lieto fine e contribuiscono a rendere più precoce e consapevole il legame con il bambino».
Giacomo Leopardi scriveva che l’attesa è più bella della festa, il sabato vince sulla domenica. Ma quando la festa, che in questo caso sarebbe stata la nascita di un figlio, non arriva, è come se una nuova grigia e minacciosa avvolgesse l’esistenza. Impedendo, ostinatamente, allo sguardo di rivolgersi al futuro, che si fa rarefatto e proibito. «Talvolta il tempo consola. Ma non sempre riesce a sciogliere del grumo di dolore che pesa sul petto», racconta Luca, papà di Lucilla, morta il giorno dopo la nascita per una malformazione congenita. «Ci sono dolori dell’anima che restano nascosti negli anfratti dell’anima e che necessitano di essere svelati. Altrimenti trovano un altro modo per farsi sentire. Ecco allora io sono contento, se così si può dire, che oggi se ad altri papà dovesse succedere di vivere una perdita come la nostra, potranno prendersi dei giorni per stare accanto alle compagne, permettono loro di avere uno spazio e un tempo per elaborare il lutto. Per poterne parlare». Loro, dice, «potranno chiamare al lavoro e dire “sto a casa qualche giorno: mia figlia è morta, e trovare forse un ambiente più favorevole, più predisposto, più aperto all’ascolto. E questo farà del bene anche a loro stessi. Dire la verità cambia non solo chi l’ascolta, ma anche chi la dice».
Ad oggi non è previsto nessun congedo per quei padri che perdono un figlio prima della ventottesima settimana di gravidanza. È una norma a stabilire quale tipo di morte sia così dolorosa da meritare un congedo. «Cosa vuoi che sia…», dicono alle madri e ai padri. Viene in mente quel passaggio del Barone Rampante in cui Calvino scrive: «Ogni volta che alzi un muro, pensa a ciò che resta fuori».
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