Famiglia

Confusione Darfur

Sudan. A che punto è l’impegno dell’Italia nel Paese africano?

di Joshua Massarenti

È la storia di una sfida che si voleva vincente. A ogni costo. Per correre in aiuto di chi, in Darfur, terra di confine tra islam arabo e islam africano, non aveva più profeti a cui rivolgersi, e forse anche per l?onore di un?Italia allo sbaraglio sullo scacchiere internazionale. Il deus ex machina di questo sogno si chiama Barbara Contini, ex governatrice di Nassiriya, nominata, poco più di un anno fa, inviato speciale del governo per una regione, quella del Sudan occidentale, martoriata da una guerra civile che dal febbraio 2003 ha ucciso almeno 180mila persone, generando oltre due milioni di sfollati. Uomini e donne, bambini e anziani, in stragrande maggioranza di origine africana, cacciati dalle proprie terre per una pelle ritenuta troppo scura e privilegi passati intollerabili. Almeno agli occhi dei temutissimi janjaweed, ?gli uomini armati a cavallo?, nomadi arabi arruolati anni fa dal regime per difendere gli interessi della minoranza araba e poi, a guerra scoppiata, per combattere i ribelli dello Slam, l?Esercito di liberazione del Sudan, e dello Jem, il Movimento per la giustizia e l?uguaglianza. Ma gli eccessi non si contano più: profughi affamati, donne stuprate e villaggi interi rasi al suolo. Da qui la decisione della Cooperazione italiana di organizzare interventi umanitari da implementare anche con il supporto di ong sparse tra Sud, West e Nord Darfur (Cesvi, Cosv, Intersos e Coopi). L?obiettivo ambizioso era quello di rendere visibile sul terreno il ?sistema Italia?. Nel cuore di Casa Italia Ma dalle parole ai fatti il passo è lunghissimo. Vita è sbarcata in Darfur per verificare con i propri occhi lo stato di avanzamento dei lavori tuttora in corso. A Casa Italia, cuore operativo dell?ambizioso progetto e luogo che ha ospitato più di una delegazione di parlamentari, la tensione è alta. Siamo in piena emergenza, il tempo stringe. Sempre. «Dicembre è alle porte e noi, entro fine anno, dobbiamo chiudere tutti i progetti». Le parole di Giorgio Trombatore suonano come un ammonimento, lanciato a se stesso più che ai propri collaboratori. Di sicuro l?uomo di fiducia della Contini, assente nelle settimane della mia presenza in Darfur, sta dando il massimo. «Perché ogni promessa che faccio, la voglio mantenere». Straight forward. Tira dritto. Dopo 12 anni prestati instancabilmente al servizio dell?emergenza, questo è diventato il suo motto da battaglia. Dall?Afghanistan al Congo, passando per l?Iraq, di guerre Trombatore ne ha viste tante. Il Darfur è il primo conflitto vissuto nei ranghi della Cooperazione italiana che, per la sua conoscenza della cultura locale (lingua araba compresa), lo assume nel novembre 2004. Prima in qualità di logista, poi come coordinatore politico, infine, dall?agosto di quest?anno, come capo progetto. Una scalata perfetta che vede ogni discussione sulle attività della Cooperazione italiana trasformata in spunto per lodare l?umanitario made in Contini. Un rullo compressore che, dalle voci raccolte sul campo, «fa muovere le cose andando laddove nessuno osa andare». Muhajariyya o Kidingir, non fa differenza. In entrambi i casi i cooperanti italiani vi si avventurano senza tante paure, percorrendo strade costellate da janjaweed in fondo alle quali si sbarca in territorio ribelle, «quello amico» tiene a precisare Trombatore. I progetti del Cesvi… Alle strette di mano facili con i combattenti darfuriani, fanno da contrasto le grandi difficoltà incontrate nei progetti finanziati ad almeno due delle ong italiane chiamate in causa dalla Contini. A Kass, 80 chilometri a nord-ovest di Nyala, ne erano tutti convinti. La riabilitazione dell?acquedotto progettata dal Cesvi a favore di 60mila persone avrebbe fatto faville. Ma dopo quasi un anno di tira e molla lo scenario è desolante. Di rifornimento acqua non se ne parla. Simili a scatole di fiammiferi, i quattro tank di raccolta acquifera che dominano il campo profughi della città sono maledettamente vuoti. Così come sono ancora da sostituire i tubi che serpeggiano nelle vie centrali. Tutt?al più ci si imbatte in schiere di operai occupati a costruire pozzi. «Poca cosa», spiega Trombatore, «se si pensa che, nonostante uno studio di fattibilità esemplare, a novembre i lavori dovevano già essere conclusi». Da ex desk officer del Cesvi in Africa orientale, Lorenzo Latini ribatte che «tempo e soldi a disposizione sono stati insufficienti. Per realizzare un progetto simile erano necessari 800mila euro, non i 400mila inizialmente previsti», poi ridotti a 192mila. «Con queste risorse», prosegue Latini, «la cooperazione italiana ci ha inoltre chiesto di concludere i lavori in tre mesi, tra marzo e agosto scorso, quando ce ne sarebbero voluti ameno otto». Detto questo, «operare in Sudan è molto difficile». A partire dalla logistica. Via terra ci vogliono cinque-sei giorni per trasportare il materiale da Khartoum. Per cielo, poi, i costi sono proibitivi. Infine le strade in Darfur sono quelle che sono. Tra Nyala e Kass è un susseguirsi di buchi e voragini che ti costringono a fare 80 chilometri in due ore e mezzo. Un viaggio massacrante che, durante la stagione delle piogge, diventa spesso improponibile. «Come se non bastasse», aggiunge Latini, «c?è il problema sicurezza. Tre dei nostri sono stati attaccati nel marzo scorso». Risultato: il progetto di Kass è stato recuperato dalla Cooperazione italiana, con l?obiettivo di concludere i lavori entro dicembre. Mission impossible? Il no di Trombatore è scontato. «Abbiamo assunto sei tecnici, e questo dovrebbe bastare». Più scettico appare invece il nuovo logista del Cesvi, Ambrogio Cattaneo, senza lauree e master in tasca, ma con trent?anni di emergenza alle spalle: «Penso ai generatori, vitali per far funzionare l?acquedotto. Purtroppo quelli di Kass non funzionano». … e quelli di Intersos In West Darfur non si sta certo meglio. Anzi, è la regione più devastata dal conflitto. Scontri armati e banditismo sono padroni assoluti di un territorio in preda all?insicurezza assoluta. Nella sede di Intersos, a El Geneina, l?annuncio fatto dall?Onu di evacuare il personale non indispensabile viene accolta quasi con indifferenza. Le preoccupazioni sono altrove. Tutte dirette a sud della città, nelle aree di Habila e Wadi Salih, e a oriente, oltre il confine che separa il Sudan dal Ciad. Da quelle parti, si contano una ventina di espatriati e oltre 140 operatori locali, alle prese con orari impossibili e pressioni politiche quotidiane. La fatica è immensa. La sentono quelli che stanno nel compound a coordinare le operazioni. Figurarsi quelli che sgobbano sul terreno a curare i tanti, troppi sfollati, provvedendo al loro rimpatrio, ad alleviare il dolore delle donne stuprate, a costruire pozzi e latrine, a istruire bambini, a rilanciare attività produttive ormai ridotte al lumicino. Qui come altrove il lavoro delle ong non si limita soltanto all?impeto umanitario. La vicenda di Intersos ci ricorda che il mondo delle ong è anche un mercato di competitor. Una galassia in cui chi ha i soldi scavalca gli altri. Agli inizi di novembre del 2004, Intersos era leader agency del campo profughi di Garsila. Arrivati per primi al campo era loro il diritto di prelazione per coordinare gli aiuti umanitari da consegnare a oltre 36mila sfollati. «In quel progetto la Contini ci ha creduto molto», assicura Trombatore. Con un finanziamento pari a 383mila euro, «si trattava di una gestione a 360 gradi del campo». Ma si sa, le regole del libero mercato sono impietose. «E così, in mancanza di personale, Intersos è stata scavalcata da ong più potenti, tra cui la Norwegian Church Aid». Nel luglio 2005, si opta per la cosiddetta variante. Un eufemismo che vede Intersos spinta ai margini di Garsila per costruirvi mille latrine e una decina di pozzi. «Onestamente», conclude il vice della Contini, «ci aspettavamo di più». «Di più», ribatte Magda Bellù, coordinatore di Intersos in Darfur, «significa poter contare su un appoggio finanziario doppio rispetto al budget iniziale. Tanto per avere un?idea, i norvegesi si muovono con 29 milioni di euro». «Ma a Garsila la cooperazione italiana è stata molto presente», ribatte Trombatore, «la Contini si è recata lì più volte, portandoci pure il sottosegretario Boniver e altri parlamentari». Visibilità era l?imperativo della missione italiana in Darfur, ma oggi di visibile c?è solo una gran confusione. La stessa che vede Barbara Contini mediatrice di pace in Darfur, quando a Khartoum c?è una rappresentanza diplomatica italiana predisposta a questo tipo di attività. Con parole di circostanza l?ambasciatore italiano Lorenzo Angeloni ci dice di aver «accolto con la massima disponibilità una figura inviata dal governo italiano». Ma chi frequenta l?ambasciata sa che tra Angeloni e Contini stima e simpatia non sono mai stati all?ordine del giorno. Avamposto 55, ovvero cronistoria di un ospedale televisivo Le promesse di Sanremo hanno le gambe corte «Se Avamposto 55 nascerà, questo festival sarà servito a qualcosa». Così Paolo Bonolis il primo marzo 2005 durante l?ultimo Sanremo. A nove mesi di distanza, quella speranza trova riscontro in un ospedale allo stato embrionale, nel quale funziona solo un ambulatorio. A questa certezza si somma una domanda: perché costruire un ospedale ex novo? Un?idea al volo«L?idea», dice Giorgio Trombatore, il vice di Barbara Contini che abbiamo incontrato in Darfur, «nasce per colmare la carenza di servizi sanitari a Jebel – periferia di Nyala – da un accordo con lo sceicco Mussa, leader della confraternita musulmana Tariqa al Tijani». Peccato che di Avamposto 55 non sapesse nulla Andrea Tamburini, in forza alla Cooperazione italiana dal novembre 2004 a metà febbraio 2005: «Non ho mai sentito parlare di un ospedale da costruire». Di certo c?è che la sera del primo marzo, in mondovisione, la Contini annunciava il lancio di Avamposto 55. Per Guido Sabatinelli, rappresentante Oms in Sudan, «quest?ospedale è solo un progetto d?immagine». A gettare benzina sul fuoco ci sono poi i dubbi espressi a Vita da una fonte Onu che vuole restare anonima: «Perché costruire una struttura ex novo quando a Nyala era già presente un ospedale in condizioni disastrose?». La spiegazione la dà, di nuovo, Trombatore: «Nell?area di Jebel ci sono migliaia di donne e bambini esclusi dai servizi pubblici». Ma c?è chi l?ospedale civile di Nyala lo ha visto con i suoi occhi, uscendone disgustato. «Era nel maggio scorso. Quel giorno me lo ricordo bene perché dopo aver dato un?occhiata alla sala operatoria, giurai a me stesso che se in Darfur mi fosse capitata una disgrazia, non avrei mai accettato di farmi operare in una struttura così». Chi parla è Marcello Gaspa, presidente della Spes, onlus fondata nel 2002 a Trieste «da un gruppo di amici» senza precedenti esperienze significative in Africa, e coinvolta dalla Contini proprio alla vigilia di Sanremo come ?implementing partner? della Cooperazione italiana per «gestire i fondi che sarebbero stati raccolti dal Festival e seguire i lavori». Bonolis aveva promesso un milione di euro. «Da parte nostra», rivela Gaspa, «ci bastavano 300mila euro per costruire la prima parte dell?ospedale». Un centro d?emergenza pediatrico con 20 posti letto, poi ampliato con una seconda struttura, per ora solo sulla carta, chiamata ad accogliere i familiari dei ricoverati e un presidio ostetrico-ginecologico. Costo aggiuntivo: 200mila euro. «In tutto l?ospedale ci sarebbe costato attorno ai 500mila euro», spiega Gaspa. Con l?avarizia dei cantanti finora la Spes ne ha raccolti solo 350mila, in gran parte provenienti dal Segretariato sociale Rai. «Speriamo di ricevere a breve 50mila euro dal Comune di Milano, mentre altri 150mila sono in ballo con Bonolis». Bonolis promette Un faccia a faccia col presentatore tv c?è stato il 14 ottobre. «Durante l?incontro», ricorda il presidente della Spes, «Bonolis mi ha promesso che avrebbe chiesto i soldi a Mediaset convincendoli dell?opportunità di un?azione bipartisan Rai-Mediaset su Avamposto 55. Pier Silvio Berlusconi avrebbe accettato». Nulla di definitivo ma Trombatore assicura: «Entro fine 2005 l?ospedale sarà consegnato a Tariqa al Titani e al ministero della Sanità locale». Lo stesso che ha ridotto in cenere l?ospedale civile di Nyala.


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