Welfare

Confiscate alla mafia e fallite: così muoiono migliaia di aziende

Uno studio dell'università Cattolica dimostra come 4 aziende su 5 sottratte alla mafia abbiano chiuso i battenti una volta passate nelle mani dello Stato. Colpa della gestione fallimentare da parte di amministratori "pagati per far morire le imprese". Intanto il nuovo direttore dell'Agenzia per i beni confiscati prova a far pulizia, ma trova solo ostacoli

di Gabriella Meroni

Le aziende confiscate alla mafia? Si tengono in piedi solo per mantenere chi le amministra, non certo per farle funzionare e salvaguardare così i posti di lavoro. E’ questa l’impietosa conclusione a cui è arrivato uno studio condotto da Transcrime-Centro di ricerca dell’Università Cattolica e dell’Università di Trento, per il Ministero dell’Interno, che fornisce una esaustiva analisi delle aziende confiscate ma offre anche qualche spunto di riflessione sulla loro gestione.

Gestione di fatto fallimentare, se si pensa che solo il 15-20% delle circa 2000 aziende confiscate alla mafia dal 1983 a oggi è ancora attivo sul mercato, il 60% è stato liquidato o è in liquidazione, mentre almeno il 10% è fallito; in media la liquidazione sopraggiunge dopo oltre 3 anni dalla confisca definitiva, che per alcuni casi si estende oltre i 15 anni, e non risultano grandi differenze a livello di settore di attività e di regione di appartenenza.

“A parte le considerazioni che riguardano la competitività delle imprese mafiose una volta confiscate”, è l’atto di accusa di Ernesto Savona, direttore di Transcrime, “risulta chiaro che la gestione delle aziende confiscate rischia di essere soltanto finalizzata al mantenimento degli amministratori e non a quello delle aziende e dell’occupazione”. “Per invertire questo ciclo”,  continua Savona, “occorre spostare la gestione delle aziende confiscate dai professionisti dell’amministrazione giudiziaria a manager di impresa. In questo modo si eviterebbero gli scandali, di questi giorni, di amministratori che sono super pagati per far morire le imprese”.

Chiara l’allusione all’Agenzia nazionale per i beni confiscati, il cui  nuovo direttore, il prefetto Giuseppe Caruso, ha sostituito alcuni dei più noti amministratori giudiziari nominati dai tribunali, suscitando irritazione e proteste. “Alcuni hanno ritenuto di poter disporre dei beni confiscati come privati, su cui costruire i loro vitalizi”, ha tuonato Caruso. “Non è normale che i tre quarti del patrimonio confiscati alla criminalità organizzata siano nelle mani di poche persone che li gestiscono spesso con discutibile efficienza e senza rispettare le disposizioni di legge”. La normativa infatti prevede che la destinazione dei beni dovrebbe avvenire entro 90 giorni o al massimo 180 dalla confisca, mentre – nota Caruso – “ci sono patrimoni miliardari da 15 anni nelle mani dello stesso professionista”.

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