In questi anni sono stati versati fiumi di parole sul colonnello Muammar Gheddafi. S’è davvero detto tutto e il contrario di tutto. Alcuni dei lettori di questo Blog, quasi sicuramente, ricorderanno che Alexander Haig, segretario di stato ai tempi di Ronald Regan, vedeva il colonnello libico come il fumo negli occhi, considerandolo un personaggio pericoloso per gli Stati Uniti, una sorta di sobillatore delle coscienze nel mondo arabo e particolarmente in Africa. Curiosamente, qualche anno dopo, sotto la presidenza di George W. Bush, il numero uno della diplomazia Usa Condoleezza Rice cambiò idea, cenando con Gheddafi per raccogliere un brindisi all’insegna dell’amicizia; un gesto che avrebbe segnato l’inizio del disgelo tra Washington e Tripoli. Come ha pertinentemente rilevato in un suo editoriale l’amico Andrea Semplici la cena tra il colonnello che, vent’anni prima, Regan aveva liquidato come “Barbaro e pazzoide” e la donna più potente degli Stati Uniti avvenne nella caserma di Bab al-Aziziyah. Sì, nell’edificio su cui, il 15 aprile 1986, i cacciabombardieri Usa sganciarono bombe da 952 chilogrammi di peso, uccidendo Hanna, la figlia adottiva di Gheddafi e 37 persone. Anche l’Italia ha contribuito a promuovere la distensione nei confronti della Libia. A parte l’impegno profuso da Silvio Berlusconi nel riabilitare la figura di Gheddafi, va ricordato che già nel 1999 il ministro degli esteri Lamberto Dini aveva incontrato il colonnello, poche ore dopo la fine dell’embargo internazionale contro Tripoli. Pochi mesi dopo, Massimo D’Alema fu il primo leader occidentale a mettere piede in Libia dopo gli anni del terrorismo. È dunque chiaro che i giudizi si capovolgono a seconda delle convenienze economiche e strategiche. Gheddafi insomma è un personaggio carismatico, eclettico, controverso, spietato, ma soprattutto imprevedibile. D’altronde non si sopravvive quarantadue anni al potere, sfidando mezzo mondo, se non si ha, come lui, la spregiudicatezza del satrapo.
A questo punto viene spontaneo chiedersi quale potrebbero essere gli effetti della crisi libica in Africa. Anzitutto va ricordato che il governo di Tripoli copre il 15% del budget annuale dell’Unione Africana (Ua) che, per il 2011, ammonta a 257 milioni di dollari. Considerando pertanto quello che sta avvenendo in Libia in questi giorni, non sappiamo se in futuro questo Paese sarà in grado di mantenere l’impegno. Sta di fatto che se l’organismo panafricano, con sede ad Addis Abeba, faceva già fatica a sbarcare il lunario, ora si preannunciano drastici tagli alle sue già scarse finanze, considerando gli effetti della rivolta del pane in tutto il Nord Africa. Ma la vera incognita è politica perché se da una parte è vero che diversi governi africani stanno in piedi grazie al sostegno offerto da Gheddafi – dal Ciad alla Liberia, per non parlare della Repubblica Centrafricana – da oltre 40 anni il leader libico rappresenta un fattore altamente destabilizzante a livello continentale. Basti pensare a certi personaggi defunti, foraggiati alla grande dal regime di Tripoli, come il sanguinario dittatore ugandese Idi Amin Dada o al capo ribelle sierraleonese Foday Sankoh, fondatore del Fronte Unito Rivoluzionario (Ruf). La stessa rivolta che nel 2002 scoppiò nel nord della Costa d’Avorio contro il presidente Laurent Gbagbo venne pianificata e organizzata da militari libici. Gheddafi insomma è stato un abilissimo e imprevedibile “giocatore di poker”, col risultato che è riuscito a tener testa con grande disinvoltura anche alle grandi potenze, Stati Uniti in primis. Va comunque ricordato che l’ansia africanista del leader libico – grande promotore degli stati Uniti d’Africa (anche se poi nessuno l’ha mai preso sul serio più di tanto) – si è comunque peccaminosamente dissolta di fronte ai migranti, ai neri di pelle, obbligandoli ai lavori più umili. E, quando in Libia erano troppi, puntualmente li rispediva nel deserto o li buttava in mare.
Ma tornando al ragionamento sui futuri scenari per l’Africa, la situazione è certamente preoccupante perche mai come oggi la Ua manifesta segni di grande debolezza. Basti pensare allo strascico della crisi ivoriana che la vede la diplomazia africana in grande affanno e soprattutto inconcludente. Stesso discorso per la Somalia che rimane il “buco nero” del Corno d’Africa. E cosa dire del Sudafrica di Jacob Zuma (un personaggio alquanto discusso) o della Nigeria alla ricerca di nuovi equilibri con le elezioni in programma ad aprile? Questi Paesi non stanno politicamente attraversando giorni felici. Una cosa è certa: l’evolversi degli eventi in Africa gioca sempre più a favore della Cina che prosegue, senza scrupoli, la sua opera di colonizzazione a livello continentale. A questo proposito sarebbe ore che l’Europa ritrovasse al suo interno una unità politica capace di sostenere lo sviluppo dell’Africa. Un’operazione necessaria, che esige il coinvolgimento diretto di tutti i Paesi membri dell’Unione Europea, per contrastare l’imperialismo cinese, tradizionalmente allergico ai diritti umani.
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