Sostenibilità

Con il marchio “made in Parco” il mercato dell’enogastronomia può prendere il volo

Prodotti tipici

di Redazione

Di tutto, di più. Dalle prelibatezze casearie agli insaccati, dai vini alla frutta. I latticini di Paterno, il caciocavallo podolico, la mitica soppressata, il prosciutto crudo, l’olio extravergine di Montemurro, il formaggio canestrato di Moliterno, il vino Terre dell’Alta Val d’Agri. E poi, la carne della razza podolica, il “casieddu”, il fagiolo Rosso Scritto di Pantano e quello di Sarconi, la castagna “munnaredda”, le mele dell’Alta Val d’Agri.
L’area del Parco nazionale Appennino Lucano è un vero e proprio giacimento enogastronomico. C’è davvero di tutto nel paniere dei prodotti tipici dell’Appennino Lucano. Ma, purtroppo, sempre di meno. La cesta delle prelibatezze, infatti, si sta svuotando. Il terzo workshop “I sapori del Parco: dai prodotti al paniere” della due giorni sulla biodiversità che si è svolta a Marsico Nuovo, si è aperto con una doccia fredda. Il rubinetto, per restare nella metafora, lo ha aperto Gerardo Delfino, dell’Istituto nazionale di economia agraria (Inea) della Basilicata. Le produzioni tipiche e a denominazione comunitaria del Parco non se la passano affatto bene. Un malessere incarnato, in particolare, dal fagiolo di Sarconi, Igp. «Dal 2000 al 2010, il numero di aziende produttrici è diminuito del 45%; i soci del Consorzio si sono ridotti del 2%; i produttori e la superficie registrata si sono dimezzati e la produzione è scesa del 25%», ha snocciolato Delfino.
Numeri che non migliorano di molto se si guardano i dati del pecorino canestrato di Moliterno, altro noto Igp lucano. Nel biennio 2008-2009 le aziende hanno registrato una flessione del 10% mentre sono aumentati del 20% i soci del Consorzio. C’è, però, un solo caseificio nell’area del Parco. Eppure, ha sottolineato Delfino, le risorse per la valorizzazione non mancano. Basti pensare ai fondi comunitari. Cosa manca, dunque, all’area Parco per decollare? Serve innanzitutto un’idea di sviluppo locale di lungo periodo. «Una strategia coerente con gli scenari della nuova Politica agricola comunitaria (Pac) per le aree rurali che punti su tutela attiva, occupazione e identità locale; un approccio integrato e intersettoriale fra agricoltura, turismo e imprese attraverso progetti interfondi; l’individuazione di pochi obiettivi chiari, concreti e quantificati; una cabina di regia territoriale per il coordinamento delle iniziative, ad esempio l’Ente Parco e, infine, l’assistenza tecnica e i supporti alla progettazione e gestione», ha sintetizzato il dirigente dell’Inea.

Una strategia di lungo periodo
Un punto di svolta può essere rappresentato dalla creazione del marchio territoriale del Parco. La proposta è stata avanzata da Canio Alfieri Sabia, dottore di ricerca in Sviluppo rurale ed ex consulente del Parco Appennino Lucano. La stessa legge 394/91 sulle aree protette prevede che l’Ente Parco possa concedere, a mezzo di specifiche convenzioni, l’uso del proprio nome e del proprio emblema a servizi e prodotti locali che presentino requisiti di qualità e che soddisfino le finalità del parco. Il brand (ma non solo) consentirebbe di invertire la rotta in un comparto, quello delle produzioni tipiche, segnato da numerose criticità. Sabia le ha elencate tutte: frammentazione della produzione, dell’offerta e degli aspetti organizzativi e logistici; invecchiamento degli operatori del settore, scarso ricambio generazionale, spopolamento delle aree rurali; debole azione di promozione nei confronti dei mercati regionali ed extra regionali; assenza di strategie per il miglioramento della qualità dell’offerta, della valorizzazione commerciale, mancanza di strategie comuni di commercializzazione e di marketing. E poi, ancora, insufficiente assistenza tecnica, mancanza di un aggiornamento professionale permanente per i produttori convenzionali e biologici, non conoscenza o ritardi nell’acquisizione di informazioni riferite alle esigenze dei mercati locali, nazionali ed esteri.
Sabia, oltre a indicare la road map per arrivare a un logo comune, ha suggerito l’idea di dar vita a un “sistema di sviluppo locale”. Uno strumento, ha spiegato, «per facilitare la creazione di una rete di rapporti multidirezionali, tipici dei distretti, tra i componenti di una stessa filiera o di filiere diverse, ossia di un processo che muove idee, informazioni, buone pratiche e che crea relazioni stabili e sistematiche tra le aziende. E dunque: accordi commerciali, centro servizi comuni, marketing collettivo».

La voce degli agricoltori
Ma gli agricoltori, che il parco lo vivono quotidianamente, che cosa pensano dei marchi, delle certificazioni, delle tutele ambientali? Il terzo workshop “I sapori del Parco: dai prodotti al paniere” ha dato voce anche a chi lavora i prodotti. Si corre il rischio, altrimenti, di fare i conti senza l’oste. Pardon, il contadino. Peccato che ad ascoltare ci fossero pochi diretti interessati. Come ha rilevato proprio Pierpaolo Magaldi, vicepresidente provinciale di Confagricoltura Matera. Il punto, ha spiegato, è che «il mondo dell’agricoltura, subissato da incombenze burocratiche inaccettabili, percepisce i paletti previsti nell’area del Parco come vincolo e non come opportunità». Vincoli, ha rincarato la dose Magaldi, «che limitano il diritto di proprietà». Il rappresentante di Confagricoltura ha puntato il dito, ad esempio, sull’introduzione dei cinghiali non autoctoni e evidenziato la lunghezza della trafila per ottenere i risarcimenti. «Che cosa creeranno all’ecosistema?», si è chiesto.

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