Formazione

Con i gol pago l’affitto

Sport. Chi sono i calciatori che guadagnano 20 milioni l’anno

di Francesco Di Nepi

Prede consenzienti di una passione incontrollata, pura e palpabile come l?odore di canfora, tipico degli spogliatoi di un campo di calcio.Calciatori di serie C, o cadetti, o minori, le cui maglie sono le stesse di Franco Baresi e di Roberto Baggio. Solamente le maglie, però, sono uguali. La vita, le attenzioni, i flash e i microfoni rimangono totalmente astratti, nel senso che non ci sono, o quasi. Ma, in fondo, non è importante, per loro conta giocare, in qualsiasi modo modo. La panchina, il loro timore, la tribuna, il loro incubo. Perché isola dal gioco, toglie l?emozione, prosciuga il flusso di adrenalina che saetta nelle vene alla sola vista degli avversari, del pallone, del campo verde. Iniziano presto, a 15 anni, tuffandosi nell?avventura attraverso un provino da superare in tutti i modi, a ogni costo. Nel mirino copertine, stadi gremiti e interviste a tappeto. Poi la trafila nelle squadre giovanili, i duri allenamenti, la carriera, le trattative fallite. Per un banale incidente, un piccolo calo di tensione agonistica, un semplice colpo di sfortuna. «Arrivare in serie A, oggi, non è del tutto impossibile. Serve talento e un pizzico di buona sorte. Il problema è durare nel tempo, essere costanti e umili». Sono parole di Pino La Scala, 32 anni, difensore centrale dello scacchiere zonarolo della Lodigiani Calcio, squadra romana ?militante? nel campionato di serie C1 nazionale e terza forza di una regione che, nella sua storia, ha vinto poco. Lui, di Sorrento, un tempo tifosissimo del Napoli, ha iniziato nella squadra della sua città per poi fare esperienze in diverse società di serie C. Ben sei anni al Francavilla, due a Rimini e finora tre alla Lodigiani. Non è il capitano semplicemente per ragioni scaramantiche. Tempo fa, solo poche partite con la fascia al braccio e poi l?infortunio. Ma il tono di voce è ancora e sempre quello del vero condottiero. «Aiuto i giovani sia in campo che fuori. Nelle trasferte più infuocate, nelle semplici difficoltà di apprendimento, ma anche nel trovare casa». Una chioccia basilare per una società che, al pari delle altre novanta iscritte alla serie C, vive in virtù della valorizzazione dei giovani. E sulle loro cessioni. A volte ci scappa la rissa Conosce l?ambiente e lo adora, anche se a volte può perfino terrorizzare. «Mi ricordo ancora come se fosse ieri: due anni fa, in una partita di Coppa Italia con la squadra campana dell?Albanova, quindici tifosi entrarono in campo e ci inseguirono fin dentro gli spogliatoi. Furono botte, il nostro massaggiatore ne porta ancora i segni». Nonostante tutto vuole rimanerci in questo mondo, in ogni modo. «Quando smetterò, visto che dovrò lavorare, spero di riuscire a farlo restando nel mondo del pallone. Farei volentieri l?allenatore, anche il dirigente, o il general manager, o lo scopritore di talenti». Lo dice da vero innamorato, evidentemente scoperto. Non ha lo stesso atteggiamento in campo, però. Lui, difensore tecnico e roccioso, deve assolutamente coprire la sua zona di prato verde, quella stessa terra su cui passa gran parte delle sue giornate percependo stipendi degni di Rolando. Non è un refuso, attenzione, si intende Rolando, non Ronaldo. Uno qualsiasi cioè, un lavoratore come tanti, con i suoi problemi e le sue difficoltà ad andare avanti. «C?è stato un momento in cui avevo sperato di passare a una delle cosiddette ?grandi?. Nel 1987 era quasi tutto fatto con la Lazio. Poi un incidente di macchina, un anno di stop e la fine di tutte le illusioni». Parla senza rimpianti, però, come uno che il sogno lo ha realizzato comunque. Ma il rischio di fallire è ancora grande, sempre più grande. Con cinque anni di serie A un calciatore, se accorto, sistema la sua vita e quella delle generazioni a seguire. In serie C il discorso è un po? diverso. Il calcio arricchisce solo i ricchi Niente televisione, niente sponsor, pochi soldi. E ci si mette anche la Pay per view, sirena irresistibile per la maggior parte dei calciofili, più attratti da Milan-Juventus che da Como-Lumezzane. Il calcio si agita, arricchisce le sue tasche e quelle del fisco, se è vero che quest?anno le società verseranno circa 520 miliardi di tasse. Molti fiutano l?affare e si tuffano. Curiosi personaggi, procuratori famosi e famigerati. La Scala non li ama, portano avidità e inquinano il gioco.«Io non ho nessuno che cura i miei interessi. Anche perché spesso questa gente non sa nemmeno le regole del calcio. Si presentano dai più promettenti con il solo scopo di succhiare soldi». È l?unico momento in cui, parlando del suo mondo, cambia tono, ringhia quasi. Verso un qualcosa che non capisce o capisce troppo bene. Verso qualcuno ingiustamente decisivo per le sorti di un calciatore e di una società. Bruno Valentize, procuratore un tempo vicino alle alte sfere del settore, conferma. Sì, conferma. «È un mondo a volte sporco. Servono legami con le società o con i pezzi grossi. Se ti leghi al carro giusto puoi andare avanti, altrimenti ti devi accontentare di squadre e compensi minori». Un virus nel gioco, insomma, che è ormai difficile da neutralizzare. L?antidoto esiste e i cadetti l?hanno trovato. La formula? Semplice, basta pensare a giocare. L’opinione Impariamo da loro Sì, è vero, oggi sono un giocatore del Bologna e scendo in campo al fianco di Roberto Baggio. Ma le mie esperienze precedenti, prima nel Russi e poi nella Spal, mi hanno insegnato che le serie minori, anche se caratterizzate da stress e interessi sicuramente di entità inferiore, necessitano ugualmente di lavoro. Costante e faticoso. Vi siete chiesti perché, nella partita di Coppa Italia tra Brescello e Juventus, squadre con un tasso tecnico clamorosamente diverso, i campioni d?Italia per lunghi tratti hanno subito? Perché in quel momento la preparazione degli emiliani era nettamente superiore a quella degli uomini di Lippi. Questo a testimonianza del fatto che tutto il lavoro svolto dalle squadre cadette è serio e puntiglioso. Certo, l?ambiente è e rimane diverso. Tanto diverso che mi è capitato di giocare con ragazzi che, ponendo le basi per il futuro, avevano avviato aziende o attività di vario genere mentre erano ancora impegnati nella carriera di calciatore. Per essere più tranquilli economicamente e per garantirsi un domani più sereno. Questo avviene però solamente in C2 e nelle categorie dilettanti. Dalla C1 in avanti i ritmi di allenamento sono così intensi che sarebbe davvero impossibile trovare il tempo per un qualsiasi secondo lavoro. Qual è il segreto per fare il grande salto e arrivare fino in serie A? Secondo me, è necessario avere una certa dose di talento e, soprattutto, trovarsi nel posto giusto al momento giusto. E questo, sinceramente, lo decide la fortuna. di Michele Paramatti, difensore del bologna


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