Welfare
Con Dino, in nome del popolo curdo
Dopo 39 giorni di detenzione, il pacifista italiano affronta i giudici in un asettico palazzo di Diyarbakir.
Diyarbakir. Un fazzoletto di cemento, ben recintato. L?aereo di linea della Turkish Airlines, proveniente da Istanbul, parcheggia nel piccolo spazio ad esso riservato, ospite della grande base aerea dell?aviazione militare. In questa città, lo si capisce subito già scendendo la scaletta dell?aereo, i militari contano molto. Anzi, sembra che la stessa città sia costruita, utilizzata, per i loro scopi. Fuori dal parcheggio dell?aeroporto, la recinzione prosegue, delimitando una grande area. Una decina, almeno, di grandi palazzi di recente costruzione e in buono stato di manutenzione ricorda che in Turchia, forse più che altrove, l?essere militare, meglio ancora ufficiale, ha i suoi vantaggi. Una casa, per esempio. Quelle che vediamo ospitano probabilmente le famiglie di quei piloti che a bordo di aerei di produzione americana sfrecciano a ogni ora del giorno nel cielo di Diyarbakir, in direzione delle montagne, per colpire le postazioni dei guerriglieri curdi.
Sul pubblico, la telecamera della polizia
La città vera, quella civile e antica, appena oltre le recinzioni dell?aeroporto e delle tante caserme che guarniscono senza distinzioni il centro e la periferia di Diyarbakir, assume i colori, i profumi e la polvere di una qualsiasi città mediorientale. Strade dissestate, palazzi dagli intonaci scrostati: lo sguardo non incontra spesso altre alternative. Eppure, qualcosa a Diyarbakir c?è. C?è polvere, ma non è quella antica, lasciata da una burocrazia ignava. Si lavora, invece, nella città. Si rompe il vecchio, consunto manto stradale per posare nuove tubature. Si ricostruiscono i marciapiedi, con nuove mattonelle dal bel colore rosso. Si piantano alberi. La Turchia mostra qui non solo il pugno di ferro, con i suoi tanti soldati, ma anche, oggi più che ieri, il guanto di velluto di un?amministrazione pubblica efficientista.
I bambini, poi, anche a Diyarbakir sciamano fuori dalle scuole pubbliche a ricordare uno dei capisaldi dello Stato fondato da Ataturk, l?educazione scolastica, di massa e laica.
In città, il punto di contatto più ravvicinato tra l?opinione pubblica curda e il ?potere? turco rimane, però, il nuovo grande palazzo di giustizia. Viene da pensare, a vedere le dimensioni dell?edificio, che la giustizia abbia qui un gran daffare. È in questo bianco, asettico edificio che abbiamo incontrato Dino Frisullo. Era il giorno del suo processo. Dopo 39 giorni di detenzione. Lo abbiamo potuto vedere in faccia. Di fronte a lui i giudici, alle sue spalle i parenti, altri giornalisti e un buon numero di poliziotti. Tra i quali uno particolarmente inquietante. Giovane, ben vestito, una fiammante piccola telecamera digitale nel palmo della mano. Riprendeva non i giudici, non Frisullo, ma il pubblico. Insomma, l?archivio della polizia turca si è arricchito ora di una nuova documentazione digitale. Potrà servire in occasione di nuovi arresti, di nuovi processi.
Guardo Frisullo bene in faccia, sono attento al tono della sua voce. Non mi sembra arrogante, ma ben fermo a ?scandire? le sue parole, le sue accuse. Non è mai agitato, ma è pervaso da un nervosismo ben controllato. Non mi sembra quel pacifista un po? matto, come è stato definito da qualcuno che prima di me lo ha incontrato in Italia.
Frisullo ricorda davanti ai giudici la manifestazioni dei curdi, represse nel sangue a Diyarbakir nel 1992 e nel 1993. Poi la manifestazione del 21 marzo di quest?anno, le manganellate a un ragazzino caduto davanti ai suoi piedi. E la decisione di non scappare, l?arresto, la prigione, la tortura ad alcuni prigionieri dell?ultima ora. Il rischio è troppo grande, quando si dicono queste cose in un tribunale turco, per giocare a fare i matti.
I giudici, tutti vestiti in abiti civili compreso il rappresentante dell?esercito, una curiosità la mostrano. «Che intenzione aveva, venendo proprio a Diyarbakir? Quella di alimentare una discriminazione per qualche motivo, di lingua, di religione, di etnia?». Giochi di parole, sottintesi. Il separatismo curdo sullo sfondo. Progetto perseguito, represso e forse da qualcuno alimentato?
«No signor giudice, non sono venuto», precisa Frisullo, usando i vocaboli degli accusatori, «per alimentare discriminazioni. Bensì per verificare, controllare che non avvenissero discriminazioni contro la gente di Diyarbakir». Il nocciolo della vicenda è qui: nell?aula del tribunale è come se ci fosse uno squarcio di verità. Tutti, amici e nemici, difensori e accusatori, poliziotti e testimoni, si aspettavano di sentirsi dire il ?perché? di quel processo.
«Non sono colpevole di queste accuse»
«Per questa ragione», dice rivolto ai giudici,«non mi sento colpevole di quello che mi accusate. Io credo infatti che bisogna intervenire là dove c?è la violazione dei diritti umani, per riportare la pace». Di cosa dovranno accusare Frisullo? I giudici dibattono: appartenenza ad associazioni illegali o istigazione al separatismo? Lo accuseranno di uso di metodi violenti o di istigazione verbale? La politica e la diplomazia hanno già deciso: derubricazione dell?accusa al reato meno grave, nuovo processo il 16 giugno, scarcerazione ed espulsione.
Frisullo me lo ritrovo davanti, ormai libero, poche ore dopo il processo. Nel buio del cortile di un albergo, di quello che un tempo fu un luogo di sosta per le carovane che andavano vero la Siria o l?Iraq. L?ho guardato, con attenzione, mentre abbracciava e veniva abbracciato dai suoi parenti. Gli chiedo: «Sei stato duro con i giudici, sapevi di rischiare?». Mi risponde con il tono pacato che avevo sentito poche ore prima: «Avevo preparato una dichiarazione per i giudici ancora più dura. Sono stati i miei avvocati a spingermi a renderla meno aspra. E io ho accettato, perché volevo uscire di prigione, riabbracciare i miei cari. A una condizione però: uscire a testa alta. Non volevo fare la figura di uno che era capitato per caso, quel giorno, in quella piazza». È buio nel cortile, i giornalisti incalzano intorno a lui. «Andiamo dentro, qui non si vede niente». «No», risponde Frisullo, «voglio vedere le stelle, per troppo tempo non le ho viste».
Poi, con una commozione più forte ancora, aggiunge: «Quando stavo per uscire, mi hanno abbracciato, hanno pianto e ho pianto. In quel carcere ci sono prigionieri comuni e trafficanti di armi e droga, tutti sono stati corretti con me. Ci sono i curdi, come quel prigioniero con un braccio amputato e senza un occhio, bastonato selvaggiamente quando lo hanno portato nell?anticamera del carcere, lì dove comandano i militari. Voglio raccontare le loro storie, glielo devo». Si rigira un pacco di lettere tra le mani, le hanno scritte i prigionieri di notte e gliele hanno affidate perché il mondo sappia. È certo che quanto scritto verrà presto conosciuto.
L?aereo per Ankara è arrivato. Frisullo ringrazia noi, e non solo noi: «Ringrazio mio padre, eccezionale, tutti quelli che hanno fatto sentire la loro voce, anche il governo, anche se a Prodi chiederò di affrontare la questione curda con maggior vigore». Poi un ultimo appello: «Ora dimenticatevi di me. L?opinione pubblica deve concentrarsi sull?oppressione cui sono costretti i curdi».
Il saluto di tanti giovani
Giovani, tanti, dal capo quasi rasato, si affrettano prima di me per salutare questo italiano coraggioso. Uno avanza su una sedia rotelle, un altro lascia le stampelle e si fa aiutare dagli amici. È tempo di tornare a casa, in licenza. Ma il 16 giugno Dino sarà di nuovo qui, al suo posto, sul banco degli imputati.
I giovani soldati turchi hanno la faccia di bravi ragazzi con tanta voglia di fuggire dallo schifo della guerra. Ancora una volta, come altrove, sono gli uomini della politica a mancare ai propri doveri: trovare le soluzioni ai problemi, senza tentare le scorciatoie della violenza e delle armi. Anche a Diyarbakir, forse, sarebbe possibile.
L?opinione di Daniele Scaglione
Turchia, ti sorvegliamo
Nel settembre 1995 Osman Murat Ulke bruciò la cartolina di chiamata alle armi. dichiarando che non avrebbe mai prestato il servizio militare. Ciò gli costò undici mesi di galera, e oggi è ancora perseguitato. Osman è un personaggio storico, poiché è il primo obiettore di coscienza, in Turchia, a manifestare pubblicamente il proprio rifiuto al servizio militare. In questo Paese, l’obiezione di coscienza non è un diritto riconosciuto.
La vicenda di Dino Frisullo, come qualche mese prima l?arrivo di migliaia di curdi, ha contribuito ad accendere l?attenzione dell?opinione pubblica sulle violazioni dei diriffi umani nel territorio controllato da Ankara. Amnesty International registra da tempo, in Turchia, violenze e soprusi su vasta scala. La situazione è resa più complicata da diversi fattori. Senza dubbio vi sono in campo interessi economici non trascurabili, per esempio nel commercio di attrezzature militari: Amnesty Intemational ha chiesto la cessazione immediata della vendita di elicotteri a Francia, Germania, Italia, Russia e Usa, avendo prove che tali velivoli sono stati utilizzati per bombardare villaggi.
Complesso è anche il conflitto che attraversa il sud est del Paese, dove le violazioni dei diritti umani sono compiute da tutte le parti. È un?amara ironia il fatto che in tredici anni di guerra il Partito dei lavoratori del Kurdistan, il Pkk, mentre sosteneva di lottare per l’indipendenza del Kurdistan, uccidesse un gran numero di abitanti dei villaggi (almeno 400, tra il ?93 e il ?95).
La Turchia non è certo un Paese senza speranze. Molto però si gioca a livello internazionale: ogni forma di dialogo deve avere come prerequisito il rispetto dei diritti umani. E il primo banco di prova resta la libertà d’azione di chi si batte per le libertà fondamentali: Leyla Zana, parlamentare regolarmente eletta, è finita in carcere per aver cercato di favorire la riconciliazione tra turchi e curdi. Se a lei e a quelli come lei sarà data possibilità di agire, la Turchia potrà davvero conquistare una pace basata sul rispetto dei diritti umani.
presidente di Amnesty International, sezione italiana
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