Famiglia

Comunità per minori, passione infinita

Il 12 aprile Milano ospiterà una tavola rotonda per fare il punto sulla realtà delle comunità residenziali per minori, che sono sotto attacco. Su VITA in edicola raccontiamo un mondo di cui si parla molto ma si conosce poco.

di Sara De Carli

«È in corso una campagna denigratoria ingiustificata nei confronti di queste strutture e del servizio che offrono»: così il Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza Vincenzo Spadafora, intervistato sul numero di Vita in edicola da oggi, fa il punto sulla situazione in cui versano le comunità residenziali per l’accoglienza dei minori fuori famiglia. A Napoli, per esempio, il Comune non paga le comunità da 36 mesi, per una cifra vicina ai 10 milioni di euro: negli ultimi sei mesi hanno chiuso 40 comunità, mentre il bisogno di collocare minori continua a crescere. Questo tema verrà affrontato a Milano il prossimo 12 aprile, in un convegno dal titolo “L’accoglienza dei bambini ai tempi della crisi”, organizzato da Sos Villaggi dei Bambini, Cnca, Cismai, Cncm e Agevolando e patrocinato dal Comune di Milano (qui le info e i contatti per le iscrizioni). Al convegno ci avvicineremo con un dibattito su twitter con l'hashtag #lacrisieibambini

In Italia sono 29.309 i minori fuori famiglia (dato al 31 dicembre 2010), in pratica quattro minori ogni mille vivono questa esperienza almeno per un periodo. Un mondo di cui si parla molto ma si conosce poco, che su VITA in edicola da oggi raccontiamo con un ampio servizio. Alla tavola rotonda di Milano interverrà anche Paola Bastianoni, che insegna Psicologia dinamica  all’Università di Ferrara. Lei stessa ha guidato una comunità sperimentale negli anni ’80 e il libro che ne è nato, “Una normale solitudine”, ancora oggi è un punto di riferimento.

Professoressa, cosa significa riflettere sulle comunità per minori a partire dai concetti di “necessità” e “appropriatezza”, come indicato dalle Linee Guida Onu per l’accoglienza fuori dalla famiglia di origine?
Necessità significa innanzitutto che le comunità hanno necessità di esistere: i bisogni della tutela cambiano, ma la comunità continua a rimanere una risorsa importante. Non unica né sostitutiva, sia chiaro. Però è una risorsa all’interno di un range diversificato, dentro e insieme alle altre risposte che puntano magari più sull’affido o sulle nuove forme di sostegno famigliare integrato.

Quando la comunità è la risposta giusta?
Quale sia la risposta giusta deve essere valutato di caso in caso, per ciascun bambino. Necessità e appropriatezza vanno sempre usate insieme e in maniera attenta. In linea di massima quando c’è un obbligo di tutela immediata per minori che vivono situazioni molto gravi, quando si tratta di adolescenti allontanati da famiglie complesse, per i minori stranieri non accompagnati, per i ragazzi che vivono un fallimento adottivo nell’adolescenza. Prendiamo i MSNA: non sono sono giovani senza famiglia, ma anzi con un patto molto forte con la famiglia, sono molto competenti, non hanno bisogno di una famiglia qui in Italia. Appropriatezza nel loro caso significa costruire una rete, perché l’accoglienza da sola non serve: una rete che sappia accompagnare questi ragazzi nel momento in cui il loro progetto fallisce e rischiano di entrare in depressione.

Quando non c’è appropriatezza in generale in una comunità?
La comunità dà protezione e riparo ai minori, ma l’obiettivo è rimettere in asse le risorse per consentire un rientro in famiglia. Questo è il percorso in cui devono essere accompagnati i ragazzi e le famiglie. Se non c’è lavoro analogo sui famigliari, la comunità non è appropriata. Magari poi il rientro è impossibile, ma l’importante è tradurre una storia di tradimenti in una storia passibile di narrazione.

Spadafora parla di campagna denigratoria ingiustificata, le comunità stesse si sentono sotto attacco mediatico. Sei anni dopo la chiusura degli istituti, qual è la situazione?
Le comunità sono ancora percepite come “piccoli istituti”, è vero. A volte anche nella testa degli operatori. Il modello istituto è superato, anche se ci sono ancora dei casi. La grande scommessa fatta però è quella dell’aver messo in campo le relazioni, i processi inclusivi e relazionali. Le comunità hanno messo al centro la cultura relazionale, di una relazione non sostitutiva ma riparativa. Un passo in più che le comunità devono fare è la comunicazione attiva con tutte le realtà del contesto che assiste il ragazzino: è questo che fa la comunità.

Alla politica che cosa si deve chiedere?
Intanto in questo campo si possono fare belle cose allo stesso costo, quindi la prima necessità è quella di diffondere buone prassi, nuove idee che possono essere riprodotte. Poi alla politica chiederei di non liquidare l’idea della comunità con slogan facili e popolari, facendo passare l’idea che la comunità è un qualcosa che possa essere sostituito da nuove forme di accoglienza e che il “nuovo” può sostituire il “vecchio”. Non è così. Occorre mantenere attiva una cultura della specificità e della differenza, della pluralità. L’omogeneità non serve ma riduce e costringe le persone in ruoli che non appartengono loro. L’ultima cosa è la necessità che le comunità mantengano uno spazio del pensare, accanto a quello del fare: la politica deve garantire risorse anche per quello.
 


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