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Comunità Papa Giovanni XXIII: “Come accogliamo i profughi? Vivendo con loro”

La Comunità ospita oggi 200 migranti nelle proprie strutture in varie regioni d'Italia. "Stiamo studiando un primo canale umanitario di siriani da un campo profughi del Libano", spiega il presidente Paolo Ramonda. Ecco il modello d'accoglienza della realtà fondata da don Benzi: "condivisione diretta e apertura all'altro. Siamo cristiani e accogliamo con piacere famiglie musulmane"

di Daniele Biella

Paolo Ramonda, presidente dell’Associazione comunità Papa Giovanni XXIII (Apg23) succeduto al fondatore don Oreste Benzi, è appena tornato, più che scosso, da un campo profughi del Libano. In testa, un’idea precisa: “accogliere nelle nostre strutture, nelle nostre case famiglia, almeno 12 nuclei familiari di siriani che sono ora lì nel campo in condizioni drammatiche, non potendo nemmeno permettersi il viaggio in mare verso l’Europa dato che non hanno abbastanza soldi”. Un progetto a medio-lungo termine? “No, nel più breve tempo possibile. Stiamo studiando le modalità con la collaborazione primaria della Comunità di Sant’Egidio, ho già conosciuto le famiglie (sono nella zona in cui è presente l’Operazione Colomba, il corpo civile di pace volontario della Papa Giovanni, ndr) vogliamo aprire un vero e proprio corridoio umanitario”. Se per queste famiglie andasse in porto tale soluzione, ciò rappresenterebbe un ulteriore tassello dell’impegno profuso dalla Comunità – che conta su 5mila persone e centinaia di case famiglia nel mondo – negli ultimi anni per quanto riguarda gli immigrati. Impegno che ha dato vita a un modello dell’accoglienza targato Apg23, di cui abbiamo chiesto a Ramonda.


Quante persone accoglie oggi la Comunità Papa Giovanni in Italia e in quali strutture?
Sono circa 200, di varie nazionalità, ma è un numero in crescita dato l’aumento massiccio degli arrivi in Europa nelle ultime settimane. Li ospitiamo soprattutto nelle nostre strutture delle zone di Rimini, Forlì, Cuneo, Vicenza e Reggio Calabria, dove siamo presenti anche al porto durante gli sbarchi assieme a un coordinamento di associazioni. In particolare, almeno 60 sono ora all’hotel Royal di Cattolica, altri 20 all’albergo solidale Stella Maris, gli altri diffusi nei vari territori, il più possibile a stretto contatto con la popolazione locale, le parrocchie e la nostra rete di case famiglia, luoghi di ospitalità a loro volta.

Il collocamento dei profughi nelle strutture ricettive è stato criticato da molti, compresi politici di varie fazioni. Com’è la vostra realtà?
Si, anche il Royal è finito nella polemica, però poi basta andare a vedere come si opera per smontare luoghi comuni sul cosiddetto business dell’accoglienza: noi, per esempio, in ogni situazione viviamo con i richiedenti asilo, nello stesso posto. Al Royal siamo in cinque, per esempio. La condivisione diretta significa un maggiore impegno, certo, ma ha un significato enorme, perché è un fattore educativo importante e permette di progettare tutti insieme strade percorribili per il futuro sotto ogni punto di vista, a iniziare da quello lavorativo una volta ottenuto l’asilo. Fermo restando che fra questi nostri operatori ci sono mediatori culturali e altro personale che assistono i profughi in ogni faccenda legata alla loro situazione legale.

Che rapporto avete con le Prefetture, ente che invia le persone nelle strutture, a volte criticate dai sindaci perché non vengono avvistati dell’inserimento dei profughi nei propri paesi?
I prefetti ci cercano ogni giorno, proprio perché sanno come lavoriamo. Noi rispondiamo in base alle disponibilità, perché avendo istituito il ministero dell’Interno una divisione territoriale a seconda degli abitanti di ciascuna zona, c’è un tetto massimo. I tempi, lunghi – dovrebbero essere di tre mesi per ciascuna domanda di asilo, si arriva spesso a un anno di attesa – non aiutano di certo. Le leggi internazionali nemmeno, a iniziare dal Regolamento di Dublino, che obbliga un profugo a chiedere asilo nel primo paese europeo in cui è sbarcato o arrivato via terra, come Italia, Spagna, Grecia o Ungheria, nonostante il più delle volte abbia volontà di raggiungere in Nord Europa.

Come vede l’azione attuale degli Stati membri dell’Unione europea riguardo all’accoglienza dei profughi?
È grave che non ci sia una linea comune in merito, che le decisioni continuino a essere rinviate e che nulla di concreto è stato ancora attivato a livello generale europeo. È assurdo, oltre che grave. Che si decida di aumentare gli aiuti allo sviluppo, di suddividere gli arrivi nei vari paesi, qualsiasi cosa, ma lo si faccia oggi stesso. Non è possibile lasciare tutto al buon cuore di una popolazione piuttosto che a un’altra, ai singoli paesi come l’Italia che, nonostante i propri limiti e le difficoltà, svolge una parte encomiabile nel mar Mediterraneo. Ci vuole una svolta, e lo dico sia da cittadino europeo che da cristiano, che non si deve chiudere ma aprire: come comunità, per esempio, abbiamo dato disponibilità ad accogliere senza alcuna preclusione famiglie musulmane, proprio per facilitare la conoscenza e il rispetto reciproco.

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